Ci si domanda spesso se la distinzione tra ciò che è “buono” e “cattivo” abbia radici profonde nell’uomo oppure sia dettata da convenienze nell’interesse della stabilità sociale. In termini formali questa seconda posizione è espressa dalla cosiddetta “legge di Hume”, secondo cui nessun aspetto normativo può discendere dalla semplice osservazione dello stato di cose del mondo o, detto in altri termini, non si può dedurre un precetto da un insieme di premesse che non contenga a sua volta almeno un precetto. Questo perché le cose non sono in sé né buone né cattive, accadono e basta; siamo noi che diamo valori e significati etici a fatti che altrimenti non ne avrebbero alcuno. Dopo tutto, cose che sono vietate in un’epoca o in un contesto culturale sono ammesse e addirittura meritorie sotto diverse condizioni. L’esempio classico è quello dell’omicidio, crimine gravissimo in tempo di pace ma sommo atto di eroismo in guerra. E ciò è tanto più condiviso nell’epoca attuale di relativismo etico, nella quale sembra che l’utilità pragmatica sia l’unico metro per misurare il valore morale delle azioni umane.
Eppure, se guardiamo alla parte più profonda di noi stessi, ci rendiamo conto di una luce che infallibilmente ci guida... (Leggi tutto l'articolo su meditare.it)
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12 commenti:
che la radice del male sia l'allontanamento dalla verità, mi sembra quanto meno riduttiva come affermazione...un po' socratica come posizione, senza dubbio interessante ma decisamente anacronistica...anzi, guardandosi un po' attorno non credo sia difficile capire che spesso il male commesso è un qualcosa di consapevole, calcolato, volontario..il più delle volte un male "utile".. L'ama e poi fa ciò che vuoi di agostino ha creato più danni di quanto agostino stesso potesse immaginare...mi sembra un po' lo stesso concetto della morale kantiana..ho poca fiducia nell'uomo anche perchè spesso la "verità del suo essere" sembra avere poco a che fare con una qualche etica ragionevole..mi fa paura un'affermazione del genere, temo che significhi deresponsabilizzare ulteriormente un'umanità che già di per sè tende sempre di più ad assolversi e autogiustificarsi..le responsabilità di un gesto non possono essere calcolate solo sulla base delle intenzioni che l'hanno mosso, ma anche su quella della portata delle conseguenze..
una luce che infallibilmente ci guida nella parte più profonda di noi....mmm...probabilmente la maggior parte di noi ha qualche difetto di fabbricazione, sta di fatto che per il 90% degli uomini questa sorta di salvifico interruttore è sempre spento..sinceramente sono un po' scettica riguardo la reale capacità dell'uomo di comprendere la differenza fra bene e male, e affidarsi ad un qualcosa che al di là delle belle parole si ritrova ad essere molto simile al banale istinto non mi sembra una scelta prudente....in ogni caso dubito fortemente che la prima vittima di chi provoca dolore possa essere egli stesso....
ps: se intende virtù come moralità, il saggio, consapevole di sè e del mondo, non è necessariamente virtuoso...esiste un male consapevole..e per una persona intelligente non dovrebbe essere poi tanto difficile rendersi conto che la morale non paga...
Tutto vero, se il passaggio dell'onere del giudizio dal libro della legge alla coscienza dell'uomo fosse un punto di partenza, una specie di "condono morale" regalato a un'umanità distratta e opportunista. Ma non è così. Si tratta piuttosto del termine di un cammino, lungo e faticoso, senza sconti e senza scorciatoie, che porta al cospetto della realtà più profonda dell'uomo e del mondo. I codici di comportamento, i catechismi, sono tranquillizzanti, formano una base su cui decidere come comportarci, ma non ci fanno crescere. Anche i modelli più trasgressivi sono in fondo elaborate campane normative sotto cui trova riparo il perfetto antisociale. Il fatto è che quando la norma giudica il valore si ha la morte della morale, e il vero coraggio sta nel fronteggiare l'esistente - per quanto incomprensibile possa a volte apparire - privati di ogni armatura (ma questo forse l'ho già detto...)
sono abbastanza riluttante nei confronti di norme e codici etici prestabiliti..probabilmente perchè non condivido la maggior parte delle convenzioni e delle regole sociali....non ho mai creduto in modelli di pensiero (o di comportamento) preconfezionati, ma tutto questo scetticismo, non accompagnato da una cieca fiducia nell'uomo, è tutt'altro che rassicurante..il problema è che la morale, per essere davvero tale deve essere svincolata da ogni fine o paura..dev'essere autonoma rispetto ad ogni pregiudizio e convinzione, siano essi una fede religiosa, un ideale politico, una dottrina filosofica o quant'altro, e dipendere unicamente dall'idea di bene di ogni individuo.. il che in un certo senso la relativizza..paradossale forse, ma è così...già di per sè non sono troppo convinta della possibile esistenza di una vera e propria morale..al di là di interessi personali, emulazione o semplice dconformità a regole socialmente accettate e ritenute giuste, siamo sicuri che anche dietro al più grande gesto di altruismo non si nasconda in realtà almeno autocompiacenza? e poi un'altra domanda: un qualcosa che non può che fondarsi esclusivamente su se stesso e solo in se stesso trovare ragione di esistere non rischia di essere un qualcosa di vuoto, assiomatico, tautologico?
Sono d'accordo che l'assenza di fini rappresenti la perfezione dell'agire morale, ma non solo di quello. Prendi per esempio la religione: spesso gli uomini iniziano a cercare Dio perché hanno paura della morte, ma lo trovano quando quando conquistano l'indifferenza alla vita o alla morte. Questo però non porta a relativizzare, se così fosse avresti ragione a dire che si tratta di una costruzione autoreferenziale del pensiero. Il fondamento - dell'agire morale come della matematica - non può che essere esterno al sistema, cioè trascendente.
la matematica infatti è (e deve essere assolutamente) una costruzione autoreferenziale del pensiero...e comunque non so quanto sia lecito utilizzare il termine trascendente per definire il fondamento di un qualcosa -la morale appunto- che essenzialmente dipende dalla volontà individuale, e si sviluppa attraverso l'azione pratica...ma poi cos'è davvero questo fondamento? in cosa consiste? se la morale ha un fondamento, esso non può essere ritrovato all'esterno della morale stessa, altrimenti essa come potrebbe essere totalmente libera?
Libero è forse quello che non ha legge né fondamento, o piuttosto ciò che si sviluppa verso la perfezione della propria condizione? Penso che non esista poi questa separazione così netta tra l'uomo - con il suo universo di significati - e la natura. Il fondamento non è di questo o di quello (così come il pratico e l'intenzionale non sono poi così distinti), ma è l'origine stessa delle cose, prima di ogni determinazione o relazione...
L'agire morale sarebbe dunque la perfezione della condizione umana? su questo posso trvarmi d'accordo. ma se non esiste questa netta distinzione fra uomo e natura, ed il fondamento della marale risiede nell'origine stessa delle cose, al di là di ogni determinazione contingente; essa non rischia in un certo qual modo di diventare un qualcosa di assoluto e necessario -trascendente appunto- al di là di ogni intenzionalità e arbitrio individuale? Il comportarsi moralmente non definisce in quesrt'ottica la condizione e l'essenza dell'esistere dell'uomo? Si trasforma in un "semplice" agire secondo natura, per certi aspetti inesorabile quanto le leggi naturali...Bello ma abbiamo inevitabilmente perso per la strada ciò che davvero rende tale la morale: la CONCRETA possibilità di scelta, e la volontà individuale come unica discriminante, che va al di là di ogni paura, fine, determinazione od utilità; ma che deve transcendere anche qualsiasi necessità, anche di ordine superiore...PS: il termine "concreta" non è superfluo..
Intendiamoci sui termini; per me "perfezione" non ha necessariamente una connotazione valoriale, è piuttosto da intendersi nel senso aristotelico di piena attualizzazione delle possibilità dell'essere potenziale.
Riguardo poi al dilemma tra uomo e natura, volontà e accettazione, libertà e necessità, non c'è dubbio che tale dilemma esista; ti ricordo però che nella mia visione i dilemmi non devono essere risolti con una scelta che - qualunque sia - porta con se sempre una negatività (omnis determinatio est negatio), quanto piuttosto essere dissolti in una visione di superiore consapevolezza nella quale le contraddizioni (al pari delle nostre paure e rigidità) appaiono per quello che realmente sono: fantasmi. È una visione particolare che non voglio imporre a nessuno, alla quale ritengo che sia più facile arrivare attraverso un cammino esperienziale piuttosto che razionale. È sommamente utopistica nel senso che rappresenta più che altro un ideale regolativo, un termine a cui tendere. Mi piace pensare, però, che uno degli infiniti aspetti di Dio (al quale non possiamo accedere direttamente, ma che possiamo solo confusamente intuire) è proprio quello di luogo-non luogo nel quale ogni contraddizione si dissolve...
ecco l'inceppo: si parla della morale e si chiama in causa dio per eliminare le contraddizioni che ne ostacolano la postulazione...il suo pensiero sul dissolversi delle contraddizioni in un tutto, che salvaguarda comunque l'interezza delle parti, credo di averlo più o meno compreso, sebbene continui a non concepire come possa essere un cammino esperenziale...a meno che non chiami esperenziale quello che io chiamo intuizione..in ogni caso penso di averglielo già detto: sono posizioni interessanti e che in piccola parte addirittura condivido, il problema è che la morale, proprio in quanto tale, non può adifferenza di qualsiasi altra cosa risolversi nel dissolversi della contraddizione fra necessità e libertà, proprio perche secondo me il concetto stesso di morale si basa su questa profonda distinzione..risolto il problema del rapporto fra necesità e arbitrio è finita la questione della morale, o forse la morale stessa.
...e non sarebbe forse il modo più sublime in cui guardare al problema dell'agire morale quello che prevede il disciogliersi della tensione devo-voglio-mi piace in una profonda comprensione, autoluminosa e non dianoetica?
Non sta scritto da nessuna parte che i risultati sono più importanti del come, né che ogni nostro atto deve essere un atto di lotta (non importa se contro noi stessi o un nemico esterno...).
Riguardo poi al concetto di cammino esperienziale, potremmo indicarlo anche come spostamento dell'attenzizone dalla nostra idea di mondo a come il mondo è; in questo senso l'aspetto intuitivo è effettivamente importante, perché le razionalizzazioni inevitabilmente ci portano a mascherare la realtà con i nostri schemi.
certo, le razionalizzazioni si rivelano un'arma a doppio taglio..nascono per rendere il mondo più comprensibile, e finiscono spesso per sostiture la realtà con un modello predefito dipendente dai nostri sistemi logici....ma la morale, che non è una realtà esterna, ma qualcosa di prettamente umano, dovrebbe partire proprio da questi schemi,nascere e svilupparsi sulla base di essi, non trascenderli.. che essi ne ostacolino la comprensione è difficile da credere...penso che la morale sia invece in realtà proprio uno di questi schemi del tutto ideologici e iperrazzionalizzati, un modello a cui dover tendere a causa di regole prestabilite, anacronistiche e superate in cui l'uomo di oggi si trova immerso e che non ha scelto..un modello di comportamento con cui si è costretti ogni giorno a rapportarsi ma che non si riconosce più come proprio..il dramma nasce nel non essere all'altezza di un qualcosa, il cui concetto si sente però efatizzato ed elogiato come bene supremo ogni giorno..un valore che non si riconosce e che nemmeno si comprende del tutto, ma che come gran parte della "tradizione", dei luoghi comuni, e delle formali convenzioni sociali non può essere messo in dubbio...ecco che si cercano le scappatoie allora, ecco le piccole (o grandi, dipende dai casi) ipocrisie quotidiane.. sinceramente non solo non credo che un agire morale sia raggiungibile, ma penso addirittura che non sia neanche lontanamente avvicinabile..
Che molti dei principi che vengono spacciati come valori siano truffe architettate dalle classi dominanti per sfruttare il resto dell'umanità è cosa sulla quale non si può non concordare (pensiamo ad esempio a concetti quali intelligenza, libero mercato, progresso...), ma questo non ci autorizza a negare che vi sia o vi possa essere alcunchè di assoluto. Torno a ripetere che questo punto di riferimento non è da cercarsi nella separatezza e nell'analisi (caratteri del pensiero razionale) ma nell'unità e nella sintesi, che sono facoltà dell'intuito.
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