La scuola al tempo della crisi


Tra i molti aspetti che rendono l’epoca attuale completamente diversa dalle precedenti, ve ne sono due che forse più di altri invocano la necessità di un cambiamento nell'impostazione e nelle modalità della didattica. Il primo è una crisi che, per durata ed estensione, appare non più come dinamica di aggiustamento all'interno di un modello ma come irreversibile degenerazione del modello stesso. Il secondo riguarda la quantità di informazione a cui l’individuo ha accesso e la facilità e velocità di tale accesso. In presenza di cambiamenti così profondi viene spontaneo domandarsi se la didattica, le sue modalità, ma anche i suoi contenuti debbano rimanere gli stessi o non sia piuttosto necessario ripensare l’educazione progettando un cambiamento altrettanto irreversibile quanto lo sono quelli dell’economia e della società. Considerazioni di questo tipo comportano necessariamente una riflessione sul rapporto tra educazione e società e, più in generale, tra cultura e società. I modi della cultura – soprattutto di quella scientifica – sono codici cristallizzati alla maniera delle idee platoniche o piuttosto acquistano valenza e significato a partire dal contesto in cui sono prodotti? Questa domanda è collegata ad una serie di altre questioni concernenti il rapporto tra individuo, sistema scolastico, società: in che misura il ruolo della scuola di standardizzazione della cultura e stabilizzazione sociale è compatibile con quello di favorire la creatività e le possibilità espressive dell’individuo? E cosa significa oggi dare all'individuo gli strumenti per sviluppare al meglio le proprie possibilità? L’insegnante è chiamato a osservare, ipotizzare, sperimentare, esplorare inedite possibilità senza dare nulla per scontato o inamovibile. Come in tutte le fasi di cambiamento molte idee che sulla carta sembrano vincenti potranno rivelarsi scarsamente efficaci, ma ciò non deve costituire un alibi. Se infatti si possono nutrire dei dubbi su alcune delle proposte di innovazione che un po’ da tutti i paesi sono venute negli ultimi anni, su una cosa vi è assoluta certezza: la didattica tradizionale ha ormai poco senso ed è totalmente inadeguata rispetto alle sfide di questi e dei prossimi anni.

Meditazione e felicità


Mathieu Ricard è un monaco buddista che è stato definito "l'uomo più felice del mondo". Tale definizione è dovuta al fatto che Ricard si sottopose volontariamente nel 2007 a una serie di test neurologici compiuti dai ricercatori dell'università del Wisconsin risultando avere dei valori eccezionalmente alti per i parametri usualmente associati allo stato di felicità e beatitudine. La notizia, rimbalzata sui media di tutto il mondo, contribuì a rafforzare nell'immaginario collettivo l'idea della meditazione come di una tecnica per ottenere la felicità.
Con buona pace di tutte quelle persone che si avvicinano alla pratica meditativa alla ricerca di un sollievo dalle angosce esistenziali, ritengo che questa idea sia una semplificazione fondamentalmente scorretta. Indubbiamente alcune delle dinamiche cerebrali più rigide (nevrosi) o caotiche (psicosi) possono essere contrastate con successo applicando le tecniche meditative delle varie tradizioni, ma ognuno di noi nel profondo sa che la felicità o l'infelicità è questione che riguarda l'essenza della propria persona mentre una tecnica influenza solo aspetti più superficiali. Sarebbe bello che esistesse una ricetta per la felicità fatta di prescrizioni, mantra, dieta, esercizi, ecc., ma non è così.
L'immagine che della meditazione hanno coloro che verso di essa nutrono solo un interesse culturale senza avere di fatto mai intrapreso un cammino spirituale è per molti versi distorta. Non è vero che la meditazione dà una serenità ebete, un distacco incondizionato dal mondo. Pensare di smettere di soffrire meditando è confondere la meditazione con l'autoipnosi. Il dolore resta nella sua essenza, ed è un dolore su tre piani. Dolore in se stessi nel rendersi conto della propria inadeguatezza e delle pesanti catene che ci legano alle passioni; dolore negli altri per la difficoltà, le incomprensioni, e ancora l'inadeguatezza delle relazioni umane e la loro superficialità; dolore nel cosmo per la presa di coscienza del fatto che tutto è limitato ed effimero, che niente è per sempre e che tutto quello di cui possiamo avere esperienza è destinato immancabilmente alla corruzione e al nulla. La meditazione non dà la gioia, permette però di elevarsi al di sopra di gioia e dolore e guardare queste due categorie nella luce della contingenza dell'esperienza umana. Ma sia ben chiaro il prezzo da pagare: distruggendo il dolore anche la gioia si dissolve.

L'imperatore e l'indovino (un racconto in prospettiva stoica)


Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila,
in ogni modo ricordati di una cosa: nessuno perde una vita diversa da quella che
in quell'istante ha; né altra vita vive se non quella che in quell'istante perde.
(Marco Aurelio)

L'imperatore scese in strada di primo mattino, accompagnato dalla sua scorta e da un ristretto gruppo di dignitari di corte, generali e uomini di scienza. Il sole della tarda primavera scaldava già le strade della capitale, brulicanti di attività. In quei giorni il giovane imperatore si trovava a vivere un momento magico: aveva concluso da poco una vittoriosa campagna militare contro i popoli delle steppe, a oriente e a nord, la sua gente era soddisfatta e lo amava. Per questo motivo si concedeva volentieri delle passeggiate fuori dalle mura del palazzo, tra le strade della città, come quella mattina. A un certo punto l'attenzione del gruppo fu attirata da un tumulto che si era sviluppato nei pressi del banco di un venditore di frutta. L'imperatore, incuriosito, chiese di sapere che cosa stava accadendo, così le sue guardie buttarono da parte senza troppi complimenti la piccola folla, lasciando al centro dello spiazzo un uomo dall'aspetto inquietante. Non era certo vestito come un cittadino: era oltremodo sporco, aveva barba e capelli lunghi e incolti, stracci colorati e logori lo coprivano. Il fruttivendolo sbraitava che quell'uomo gli stava rubando la merce mentre lui contrattava con altri clienti. Le leggi vigenti erano particolarmente dure contro i ladri, e anche il furto di una mela poteva comportare la tortura o una mutilazione. Il sovrano chiese dunque all'uomo cosa avesse da dire in sua discolpa, ma questi - ignorando completamente la questione che lo riguardava così da vicino - piantò i suoi nerissimi occhi in quelli dell'imperatore e disse: «io non ho un tetto sotto cui ripararmi di notte, né un soldo per comprarmi qualcosa da mangiare, ma fino dagli anni della mia giovinezza gli dei hanno voluto darmi un dono inestimabile, un dono però che in momenti come questi è per me un peso molto gravoso da sopportare». « Di quale dono parli - replicò l'imperatore - e perché vorresti adesso che gli dei non te lo avessero dato?». «Mio signore - rispose l'altro - io riesco a leggere con tanta chiarezza nelle pieghe della realtà e nei recessi dell'animo umano da intuire in maniera misteriosa quello che ancora non è accaduto ma che quasi certamente accadrà. Io sono, in buona sostanza, quello che voi chiamate un indovino.» Con un sorriso sforzato, che tradiva un certo disagio, l'imperatore lo incalzò: «un indovino? Vediamo allora, cosa accadrà al tuo sovrano in questa giornata appena iniziata?» Con voce grave e senza abbassare lo sguardo , il sedicente indovino rispose: «Mio signore, per questo vorrei essere cieco rispetto al futuro, per non dover dire quello che adesso vedo». «Cioè?» chiese il sovrano. «Che oggi non vedrai tramontare il sole», sentenziò l'altro.
L'imperatore scolorì in volto e, senza dire una parola, tirò le briglie del suo cavallo e si allontanò rapidamente dal mercato seguito dalla scorta e dai dignitari. Per come era vestito e per come parlava, e soprattutto per quel suo sguardo così intenso, quell'uomo avrebbe potuto essere benissimo uno di quegli eremiti che vivono nelle grotte delle montagne del nord, considerati dagli abitanti dei villaggi vicini come dei veri santi, in perpetuo contatto con le forze del cosmo. D'altra parte i suoi più stretti consiglieri gli suggerivano di non prendere sul serio quello che probabilmente era solo un accattone, un furfante, che vistosi scoperto aveva improvvisato quella messinscena per creare trambusto e dileguarsi. Il sovrano accettò il parere basato sul buonsenso, ma era chiaro a tutti che non era tranquillo. Per tutta l'ora successiva, mentre accudiva agli affari di stato, era distratto. Non ascoltava quello che gli altri gli dicevano e guardava spesso fuori dalla finestra, al Sole. A un certo punto scattò in piedi e, senza dire una parola, si allontanò a grandi passi dal tavolo di lavoro. Uscì dal palazzo, saltò in sella al suo cavallo e iniziò a galoppare velocissimo verso occidente. Nessuno osò seguirlo.
Se inseguo il Sole, pensava, non arriverà mai l'ora del tramonto e con essa la morte predetta dall'indovino. Questo pensiero gli diede energia ed entusiasmo, tuttavia dopo qualche ora si rese conto con sconforto che non avrebbe potuto farcela. Il Sole infatti correva in cielo più veloce del suo cavallo (che tra l'altro cominciava ad essere esausto) e, se quando aveva lasciato il palazzo era ancora basso sull'orizzonte, adesso era già alto al mezzogiorno. Si ricordò però che in quella parte dell'impero in cui adesso si trovava viveva uno stregone molto potente, esiliato in un villaggio delle province occidentali qualche anno prima. Non fu difficile trovare la dimora del mago. Questi era sulla soglia, come se lo stesse aspettando. Disse il sovrano: «Il mio cavallo non può farcela con il Sole. So che tu hai creato animali strani e meravigliosi, che non si trovano nei villaggi né nella foresta; dammi quindi un destriero che sia in terra più veloce di quanto il Sole è nella sua corsa in cielo». Senza proferire parola lo stregone rientrò nella sua dimora e dopo qualche minuto riapparve portando, legata a una catena, una creatura terrificante e meravigliosa. Non è chiaro di quante e quali specie diverse lo stregone avesse mescolato il sangue per ottenere quello strano essere vivente. Vi era la forza e la maestà del leone, l'indifferenza alla fatica del cavallo, la leggerezza degli uccelli, la determinazione di un grosso rettile. L'animale si chinò mansueto lasciando che il sovrano gli montasse in groppa. Solo allora il mago parlò: «questa creatura è venuta al mondo per correre; nel momento in cui lascerò questa catena essa ti porterà, veloce come il vento e più del Sole, ma non si fermerà mai. Sei sicuro che è proprio questo che vuoi?» «Certo», rispose con baldanza l'imperatore. Egli pensava infatti che non solo non sarebbe morto quel giorno, ma che non sarebbe morto mai più, che sarebbe diventato una specie di divinità, cantata dai poeti, che in groppa a un animale meraviglioso segue il corso del Sole nei giorni e nelle stagioni, per sempre.
«Dunque, così sia» disse lo stregone lasciando cadere a terra la catena dell'animale meraviglioso il quale si lanciò immediatamente nella sua corsa senza fine verso occidente. Inizialmente l'imperatore fu spaventato dalla straordinaria velocità della creatura, ma si abituò ben presto al nuovo passo e al vento impetuoso che tirava indietro i suoi capelli. Guardava compiaciuto il sole sopra di lui, osservando come la corsa dell'astro si fosse finalmente bloccata; quella specie di mostro correva davvero veloce come il Sole. Passò ancora qualche ora e l'imperatore si rese conto che adesso si trovava ben oltre i confini del suo regno, in terre di cui aveva a mala pena sentito parlare dai commercianti di spezie e seta. A un certo punto un nastro argentato iniziò a baluginare debolmente all'orizzonte. Non ci volle molto all'imperatore per realizzare con sgomento che le terre emerse finiscono nel grande oceano occidentale. Mentre il mostro, obbediente solo al suo cieco istinto, si tuffava nelle onde il sovrano pensò che se lo strano personaggio incontrato la mattina al mercato era davvero un indovino era stato stolto cercare di sottrarsi al proprio destino, mentre se si trattava di un impostore da quel giorno avrebbe a buon diritto potuto fregiarsi del titolo di indovino, dato che era riuscito a prevedere con esattezza un fatto così grave e rilevante. Ma in fondo, che cosa c'è di più stolto che dirigere tutti i nostri sforzi a cambiare cose che non dipendono da noi? Poi, annegò.

Sulla fine della violenza


In queste pagine già altre volte ho parlato di violenza, e quegli interventi hanno suscitato commenti polemici. La mia posizione è che non si può distinguere tra un utilizzo riprovevole della violenza e un utilizzo lecito o addirittura positivo. Non esistono guerre giuste né eroi, in un confronto in cui scorre il sangue non riesco a vedere nessuna differenza tra buoni e cattivi. Capisco che molti trovino questa posizione difficile da digerire. E forse non hanno torto: come si può rimanere inermi di fronte alla prepotenza e al sopruso? Come si può mettere sulla stesso piano chi attacca e chi lotta per la propria sopravvivenza? C'è da dire però che molte volte la minaccia da fronteggiare non è proprio una minaccia mortale, anzi magari non è neanche una minaccia, ma solo una mancanza di rispetto, un danno alle cose, un'offesa indiretta, o addirittura un nulla male interpretato. Viene allora da chiedersi se vale la pena rovinare la parte più profonda e nobile di noi stessi per difendere qualcosa che per sua stessa natura siamo comunque destinati presto o tardi a lasciare, oppure che non esiste proprio se non nei nostri schemi mentali, come l'orgoglio. A parte ciò, la domanda che viene spontanea è un'altra: quanto è praticabile la non-violenza all'interno di una società violenta? Mi sembra che il punto sia proprio questo. Non si tratta di rimuovere la violenza o le disuguaglianze o la menzogna dalle nostre vite, ma piuttosto di compiere un balzo di evoluzione culturale verso un nuovo stato di coscienza collettiva in cui violenza, disuguaglianza, menzogna siano opzioni non più prese in considerazione. Nel corso della storia dell'umanità questi salti evolutivi sono avvenuti ogni tanto. Se infatti biologicamente siamo indistinguibili dai nostri antenati di 10000 anni fa, qualche differenza tra l'uomo contemporaneo e quello vissuto agli albori della civilizzazione indubbiamente c'è. Ma come si può innescare un processo che su larghissima scala porti a una discontinuità di questa portata? Fin dai secoli antichi alcuni grandi maestri hanno indicato agli uomini la strada verso una liberazione interiore, una strada che passa dalla conoscenza e controllo della propria mente, ma solo negli ultimi decenni l'interesse verso queste pratiche di introspezione e auto-conoscenza ha assunto le dimensioni di un fenomeno di massa. Riconoscere gli impulsi che salgono prepotenti dai livelli più primitivi del cervello, vedere chiaramente i condizionamenti originati dall'educazione, assumere un punto di vista distaccato che permetta di giudicare con equanimità le situazioni, sono tutte doti che proiettano l'uomo verso una dimensione sociale ancora inesplorata e dalle straordinarie potenzialità. Riportato alla propria essenzialità l'uomo fonda la morale sull'empatia piuttosto che sui sensi di colpa derivanti da antiche ingiunzioni genitoriali, rende perfetta la propria vita mentale illuminando ogni pensiero con la luce della consapevolezza, riconosce che di tutti gli aggregati di cui fa parte solo quelli estremi – il proprio cerchio di influenza diretta e l'intera umanità – sono autentici, mentre le collettività intermedie (popolo, nazione, chiesa, classe sociale...) sono illusioni, spesso pericolose e gestite da gruppi di individui privilegiati nell'interesse di consolidare e accrescere il proprio potere. Per questo ritengo che mettere in pratica e diffondere l'antico motto socratico del “conosci te stesso” sia la cosa più significativa che possiamo fare per noi stessi e per quelli che verranno dopo di noi.


Tempi difficili


I periodi di  crisi – come quello che ormai da anni sta vivendo l'Italia e più in generale il mondo occidentale – sollecitano strategie, atteggiamenti e comportamenti che nell'ordinario non si danno. È facile comprendere la disillusione e in certi casi anche la rabbia di tanti cittadini di fronte alla continua erosione delle loro risorse finanziarie. Tanto più che quotidianamente le cronache riportano storie di politici che utilizzano il denaro pubblico per pagarsi piccoli e grandi lussi. Le persone fino a ieri abituate a lavorare con tranquillità avendo garantito un tenore di vita decoroso vedono tasse sempre più alte e stipendi che non aumentano, e a fronte di questi sacrifici i servizi essenziali sempre più scadenti mentre i politici e i manager pubblici sperperano quei soldi a proprio uso personale. Rabbia, impotenza, persino disperazione sono sentimenti diffusi. Il denaro fa sentire tutto il suo potere nel momento in cui scarseggia. L'uomo è animale sociale; l'uomo moderno specialmente non sarebbe in grado di sopravvivere se non all'interno di un contesto sociale organizzato. Qualsiasi bisogno è soddisfatto dal denaro, l'abbondanza di denaro infonde un senso di sicurezza e – di contro – la sua scarsità attiva immediatamente l'impulso primordiale della fame.

I disagi portati dalla crisi economica rientrano in quelle circostanze che influiscono sulla vita dell'individuo ma non sono da questi controllabili. Non si può infatti dominare tutto con la forza della volontà, né è vero che le nostre angosce sono sempre create ad arte dai mass media che agiscono per conto del potere (anche se spesso è così). Vi sono aspetti ineludibili legati alla salute come pure cambiamenti economici e sociali che possono condizionare pesantemente quelli che erano progetti e aspettative riguardo al corso della vita. Di fronte a queste situazioni una scelta vincente è la ridefinizione della percezione del contesto, secondo la lezione dello stoicismo: alcuni eventi dipendono direttamente e interamente da noi, ma gli altri – che cadono al di fuori del nostro cerchio di influenza – non dovrebbero turbarci più di tanto e di fatto non ci turbano se riusciamo ad assimilarli alle altre condizioni al contorno della vita. Pertanto, una visione del mondo che sia fluida e costantemente adattabile è la difesa migliore in un contesto turbolento in rapida e continua trasformazione. È un dato di fatto che esistono persone povere ma felici, mentre vi sono benestanti che arrivano al suicidio. Come è possibile? L'essenza del denaro è la possibilità di essere convertito in un qualsiasi bene o servizio non specificato a priori. In ciò sta un grandissimo potere: la promessa di ricevere non una particolare cosa, ma virtualmente qualsiasi cosa. Al potere che il denaro dà alle persone corrisponde però un potere forse ancora più grande che il denaro ha sulle persone. Per sfuggire all'angoscia che comporta una diminuzione di disponibilità finanziarie – come avviene nei tempi di crisi – ci sono allora due strade: quella ovvia è aumentare il più possibile la propria riserva, l'altra è rimodulare il proprio contesto mentale spostando importanza dai beni e servizi che si possono ottenere solo attraverso il denaro a quelli che invece sono accessibili per altre strade. Guardando attentamente dentro noi stessi ci accorgiamo che alcune esigenze sentite come fondamentali sono in realtà stadi intermedi verso bisogni ancora più profondi di cui si è scarsamente consapevoli. Nel momento in cui si realizza questa semplice verità, la strada è aperta verso la ricerca di una soddisfazione dei bisogni fondamentali che non passi per il possesso delle cose o la certificazione dello status sociale attraverso elementi simbolici. Svalutando quindi ciò che può essere comprato a vantaggio di ciò che non può esserlo, neutralizziamo il potere che il denaro ha su di noi.

Il dilemma mondo-coscienza


Alla luce dei risultati della fisica moderna appare ragionevole che la ricerca di base debba prendere in considerazione anche gli aspetti ontologici, per evitare di rimanere bloccata nel vicolo cieco di modelli che sempre meno descrivono aspetti accessibili e verificabili della realtà e sempre più assumono il carattere di mero esercizio matematico. La fisica classica è fondata su un realismo “forte”, in base a cui le cose esistono al di fuori e indipendentemente dal soggetto e sono proprio come vengono conosciute e descritte dall'indagine scientifica. La scienza ci permette cioè di accedere alla realtà “così come essa è”. Ma con la nascita della meccanica quantistica appare evidente che la realtà non è deterministica, e se il determinismo cade, anche la posizione del realismo si fa assai critica. Se infatti è in seguito alle misure che i parametri delle particelle acquistano valori ben definiti, le strade che si aprono sono almeno due: da una parte un idealismo radicale secondo cui è l'intervento del soggetto a costituire la realtà, dall'altra un empirismo non meno estremo che nega l’esistenza degli oggetti non osservati. In entrambi i casi l'usuale concetto di materia viene fortemente messo in crisi. Se infatti per l'idealista la materia è qualcosa di secondario e non autentico, le posizioni empiriste nella fisica moderna liquidano la questione ontologica come non pertinente. Ci domandiamo allora se, dovendo abbandonare il realismo forte della fisica classica, non rimanga altra scelta che un idealismo radicale in cui è solo l’azione del soggetto a costruire la realtà. Sarebbe davvero ironico se dopo due millenni e mezzo dalle prime indagini sull'arché il punto di arrivo fosse l'insussistenza di un sostrato reale e oggettivo. In effetti, tra le due posizioni estreme è possibile intravedere una terza via.
Quella che noi chiamiamo usualmente “realtà” è piuttosto una realtà empirica, e come tale è strettamente dipendente dalla presenza di un soggetto cosciente che assegna significati e costruisce descrizioni (potremmo dire, costruisce mondi). In altri termini, parlare di realtà senza un soggetto che stia di fronte ad essa e la osservi non ha senso. Indubbiamente questa è una affermazione assai forte ma è sostanziata dalle osservazioni a livello subatomico che sono state possibili, per la prima volta nella storia, solo da un secolo circa a questa parte. Né possiamo dire che la coscienza precede ontologicamente la realtà materiale, dato che ogni ipotesi dualistica di tipo cartesiano sembra ragionevolmente da escludersi, non essendovi alcun meccanismo plausibile per giustificare l’influenza della res cogitans sulla res extensa. Sono considerazioni di questo tipo che hanno condotto pensatori come Bernard D’Espagnat – importante fisico teorico che negli ultimi anni si è attivamente occupato di filosofia della scienza – a concepire un’ipotesi ontologica in base alla quale realtà empirica e coscienza sorgono contemporaneamente da un livello di esistenza più fondamentale, una sorta di “realtà velata” alla quale non possiamo accedere direttamente nella sua interezza, ma della quale possiamo avere intuizioni profonde a partire dai caratteri generali delle teorie scientifiche. Non si tratta del noumeno kantiano, inconoscibile per definizione, ma piuttosto di un livello su cui l'esperienza ha poca presa, ma che tuttavia riflette le proprie strutture nelle simmetrie delle nostre descrizioni del mondo. Ad esempio, nell'elettromagnetismo classico i campi sono descritti dalle equazioni di Maxwell; passando alla meccanica quantistica la descrizione in termini di campo elettromagnetico viene soppiantata da quella in termini di fotoni, tuttavia lo strumento matematico per calcolare l'onda quantistica associata al fotone è ancora il sistema delle quattro equazioni di Maxwell, alle quali viene data una interpretazione completamente diversa. Non è allora plausibile ritenere che le equazioni di Maxwell esprimano aspetti di quel livello fondamentale della realtà a cui non si dà accesso empirico, ma che con la sua struttura forma e sostiene il mondo dell'esperienza? La proposta di D’Espagnat si inserisce in una visione più ampia che affronta, scevra da preconcetti e postulati arbitrari, il problema della realtà e dei modelli che l’uomo costruisce, ovverosia la scienza. Pensare oggi a una realtà statica e immutabile, indipendente dal soggetto che, nell’atto della conoscenza, si limita a conformarsi passivamente ad essa, è sicuramente una visione semplicistica e obsoleta (e tuttavia acriticamente accettata da un gran numero di scienziati che nel loro lavoro quotidiano sono – più o meno consapevolmente – realisti, deterministi, riduzionisti). La complessità e la ricchezza del reale, potremmo dire la grandezza dell’universo, è cresciuta di pari passo con l’evoluzione culturale dell’uomo, proporzionalmente alla complessità e alla ricchezza semantica dei paradigmi di volta in volta adottati. Pensare in qualsiasi momento di questo cammino di essere giunti al punto finale della ricerca e di possedere una descrizione completa e veritiera del mondo è come minimo ingenuo. La più preziosa caratteristica umana – anzi, forse ciò che realmente caratterizza l’attributo “umano” – è la capacità di autotrascendenza, di vedere i limiti di ogni rappresentazione o Weltanschauung. È proprio facendo appello ad essa che possiamo riconoscere l’inesauribile ricchezza del reale e l’altrettanto illimitata possibilità di spingersi avanti nel cammino della conoscenza, in un dedalo di sentieri inesplorati. L’uomo di fronte al mondo è un sistema attivo, condizionato dalla propria contingenza di individuo (sensi, esperienza, valori e pregiudizi, capacità di ragionamento, intuizione...) e di specie (cultura, tecnologie, modelli antropologici di costruzione sociale, strutture di potere...). Ciò che è avvenuto nell’ultimo secolo è senza precedenti nella storia del pensiero: le neuroscienze ci svelano i meccanismi reconditi della sensibilità e delle capacità valutative in rapporto al contesto emotivo; la psicologia del profondo mostra la forza delle convinzioni e dei modelli di comportamento a cui la stessa razionalità è costretta a piegarsi; la logica matematica ha dimostrato i limiti della computabilità e l’essenziale incompletezza dei sistemi formali; gli esperimenti di tipo EPR hanno rivelato l’indeterminismo di fondo posto alla base stessa della realtà materiale. Questa cifra di mistero che caratterizza la realtà emerge in maniera evidente quando rivolgiamo la nostra attenzione a concetti fondamentali come quello di materia. La materia infatti (come lo spazio, o l’universo, o la coscienza) non la si può definire in maniera usuale aggiungendo una differenza specifica a un genere più ampio. Che cosa vi può essere infatti di più generale della materia stessa? Certo, si può sempre ipotizzare un livello ontologico inferiore, come ad esempio le stringhe per le particelle; ma in tal modo non si ha una effettiva definizione di “materia”, ma solo di “particella”. Infatti la risposta alla domanda: “di che cosa sono fatte le stringhe?” non può che indicare un altro e più fondamentale tipo di materia. Volendo interrompere il regresso all’infinito senza uscire dal paradigma riduzionista (quello del “questa cosa è fatta di...”) non vi è altra scelta che porre ad un certo livello della scala un a priori non ulteriormente giustificabile. Alternativamente, si deve assumere che la realtà materiale sia innestata in un livello ontologicamente più fondamentale, non descrivibile (almeno in maniera completa) da modelli scientifici, altrimenti sarebbe solo un altro tipo di materia. Se abbracciamo l’epistemologia positivista per cui ciò che non è catturabile da un modello razionale di fatto non esiste, saremo necessariamente portati alla posizione contraddittoria per cui la realtà letteralmente galleggia nel nulla. Ma se invece ammettiamo la possibilità di forme di conoscenza alternative a quella razionale e complementari ad essa – quali l’esperienza estetica, o quella mistica, o l’intuizione – ecco che si apre la possibilità di gettare lo sguardo oltre il muro del razionalmente conoscibile per cogliere importanti indizi del livello da cui emerge l’universo. Tale livello deve essere autenticamente reale (per evitare la contraddizione di un universo che sorge da un nulla privo di qualsiasi potenzialità e addirittura nemmeno pensabile); deve essere libero dalla necessità di obbedire a leggi logico-quantitative (altrimenti sarebbe solo un altro tipo di materia); infine, pur non essendo vincolato da leggi, deve comunque essere profondamente razionale (la nostra realtà rigidamente razionale non può infatti sorgere dall’irrazionalità e dal caos ma da qualcosa che sia al di sopra e più generale della razionalità stessa), deve esibire cioè una sorta di saggezza. Reale esistenza, libertà, saggezza. Non sono forse questi caratteri distintivi della vita spirituale dell’uomo? Fa molto pensare il fatto che il vertiginoso sprofondamento verso i livelli più fondamentali della realtà materiale ci conduca fino alla soglia di qualcosa che ha i caratteri di quanto più complesso, immateriale, evoluto esista nell’universo: il fenomeno umano.

I miti dell'insegnamento


Nell'attività didattica molto spesso si danno per scontati principi che non solo sono tutt'altro che ovvi, ma che ad una approfondita analisi risultano completamente infondati. Sono miti, passati acriticamente da una generazione all'altra, basati su pregiudizi mascherati da buon senso, accettati come indiscutibili verità.
Il mito delle diverse capacità. Non è vero che ci sono ragazzi più brillanti ed altri meno a causa di oggettive limitazioni; ogni persona, se messa nelle opportune condizioni, è in grado di dare prestazioni intellettuali a livello di chiunque altro. Il paragone con lo sport è sbagliato. Gli atleti infatti hanno doti oggettive in termini di forza, resistenza, velocità, superiori a quelle degli altri individui; l'allenamento da solo non basta per arrivare alle olimpiadi. Ma i cervelli di due qualsiasi persone normalmente dotate non differiscono in maniera evidente. Parlare di limitazioni oggettive è un comodo alibi per scaricare sulla natura una responsabilità che è principalmente dell'ambiente, in primo luogo della famiglia ma subito dopo della scuola.
Il mito della separazione tra gli aspetti cognitivi e quelli emotivi. Spesso viene dato per scontato che lo studio di una materia – specialmente quelle tecniche come la matematica – richieda unicamente uno sforzo di razionalità e memoria senza alcun coinvolgimento della parte emotiva della persona. Nelle aule scolastiche si può invece osservare quotidianamente (sempre che lo si voglia) come i livelli dell'apprendimento dipendano in maniera essenziale dalla qualità dell'investimento emotivo. Ragazzi intimoriti e mantenuti in un costante stato di minorità da ingiunzioni svalutanti vengono bloccati sui banchi di scuola da problemi banali che nella vita quotidiana risolverebbero senza difficoltà; altri schiacciati dall'ansia da prestazione sono talmente terrorizzati dall'idea di una insufficienza che preferiscono adottare la strategia di imparare tutto a memoria piuttosto che arrischiarsi in un approccio creativo; altri ancora manifestano il loro disagio fallendo deliberatamente. Come si può sperare di realizzare una efficace azione didattica senza lavorare anche alla costruzione di un clima il più possibile libero da giochi psicologici all'interno della classe?
Il mito della neutralità dell'azione dell'insegnante. Se guardiamo agli obblighi contrattuali, un docente dovrebbe esporre gli argomenti dei programmi ministeriali – magari in maniera il più possibile chiara – e predisporre un opportuno numero di verifiche – magari il più possibile oggettive e trasparenti – in base a cui formulare il giudizio su ogni alunno. Di fatto, dal momento in cui l'insegnante entra in classe si trova coinvolto in numerose relazioni umane e, per quanto distaccato cerchi di essere, non può evitare di farsi coinvolgere in qualche misura nel rapporto con i propri alunni. Inoltre insegnare non significa esporre argomenti; l'onere della costruzione della conoscenza è in proporzione maggiore dalla parte dello studente, pertanto l'insegnante si trova bombardato da un gran numero di feedback che non può ignorare se vuole che la sua azione abbia una qualche efficacia.
Il mito del programma. Ogni insegnante si trova a dover trattare un certo numero di argomenti elencati nelle indicazioni ministeriali, e non c'è dubbio che questo sia un fattore ansiogeno, soprattutto in considerazione dell'esame finale in cui gli alunni vengono giudicati da altre persone e su temi proposti a livello nazionale. Il punto è che aver parlato in classe di un argomento e averlo scritto nell'ultima pagina del registro non significa che gli alunni lo hanno appreso. Allora, mi domando, in cosa consiste il programma che un insegnante deve svolgere nel corso dell'anno scolastico: l'elenco degli argomenti che scrive nell'ultima pagina del registro o il bagaglio di conoscenze che i suoi alunni alla fine avranno acquisito? Per quella che è l'estensione delle indicazioni ministeriali e le oggettive condizioni di lavoro nella scuola italiana oggi, se si sceglie la prima risposta i programmi sono una ipocrisia burocratica totalmente inutile, se si sceglie la seconda si è costretti a ridurli parecchio rispetto alla loro estensione ufficiale. Meglio smetterla di pensare in termini di argomenti, ma piuttosto di competenze effettive.
Il mito della spiegazione. Gli studenti che riescono a rimanere agganciati a una esposizione lunga un'ora o poco meno cogliendo tutto quello che viene detto sono – in una classe ordinaria – una esigua minoranza. Il discorso che fa il professore (presupposti, deduzioni, esempi...) è chiaro nella sua mente ma per lo studente è una cosa nuova. L'attenzione, poi, ha dei limiti fisiologici. Basta dunque un momento di distrazione prolungata, un termine non compreso o frainteso, un po' di stanchezza, ed ecco che si perde irrimediabilmente il filo del discorso. Comprendere a fondo un argomento significa metterci tutto il tempo che occorre, sminuzzare il ragionamento in parti più digeribili e poi ricomporre tutto insieme, replicare esempi e casi particolari fino a che non si è sicuri di aver capito. Questo è il processo di costruzione della conoscenza, e non l'ascolto passivo di una spiegazione. Pretendere che lo studente operi in tal modo nello studio individuale pomeridiano delle cose ascoltate a scuola la mattina significa quantomeno riconoscere implicitamente l'inutilità della lezione frontale. La classe è il luogo dove si impara, non altro.