Sulle macchine pensanti


Vedendo quello che sono in grado di fare i computer, sia in termini di potenza di calcolo che –soprattutto – di analogia con il ragionamento umano, viene da chiedersi se e in che misura si può dire che una macchina realmente pensi. L’attività di manipolazione dei simboli in obbedienza a regole logiche non esaurisce il pensiero, casomai ne forma il frammento centrale, oltre il quale esiste però un prima e un dopo, dati dal significato dei simboli e dalle finalità che hanno mosso quella particolare attività di pensiero. Il pensiero cosciente è però questa stessa attività manipolativa con l’aggiunta di un qualcosa che non si riesce a definire. Il pensiero pensa sé stesso nei suoi meccanismi, ma nella sua essenza si sfugge completamente.
Vi è nel profondo del mio essere una realtà la cui evidenza è abbagliante, che tuttavia resiste a qualsiasi tentativo di essere descritto da modelli o definito da parole. Essa consiste nel prendere atto del fatto che tutto ciò che costituisce il mio essere appartiene a quello stesso mondo che illusoriamente considero esterno (e che nell’impresa scientifica pretenderei di studiare come osservatore distaccato). Vi appartengono il corpo, i sensi (e quindi l’esperienza), ma persino il ragionamento, che non può prescindere da un sistema fisico, cioè il cervello, l’organo della mente. Il sistema corpo-sensi-cervello elabora incessantemente esperienze modificandosi in continuazione ed adattando sé stesso nelle due direzioni: verso il futuro come calcolo e sistema anticipatorio, verso il passato come memoria; la previsione si costituisce sulla base delle esperienze passate (pregiudizio) e il ricordo cambia il proprio carattere in base ai fini che di volta in volta sono prioritari (ermeneutica). All’interno di questa attività emerge in modo misterioso un silenzioso testimone che non partecipa, ma dona senso a tutto il processo. È la capacità e la possibilità di trascendenza del soggetto che giustifica in qualche modo il suo “porsi fuori” dal mondo, solo che in ciò che resta fuori vi è lui stesso, o meglio tutto ciò che di lui può essere detto usando lo stesso linguaggio con cui si parla del mondo. La conoscenza che può sorgere seguendo questa strada è meno operativa dell’ordinaria conoscenza, decisamente ineffabile e totalmente intuitiva, ma non per questo meno “conoscenza”. È la chiara visione del mondo così come esso è, è assolutamente inutile e inutilizzabile in quanto il regno dei fini è quello stesso mondo da cui il soggetto si pone fuori, essendo il resto, ciò che rimane quando l’io conoscente si libera da ogni aspetto oggettivabile; è l’inoggettivabile, il silenzioso testimone, l’”io-sono”, la coscienza pura.
La coscienza è concetto chiave nel processo conoscitivo. La scienza tradizionale non riesce a spiegare la coscienza in termini di enti e relazioni più primitivi, appartenenti al dominio del modellizzabile (e quindi in qualche misura del riducibile alla fisica). Di solito, quello che la scienza tradizionale non riesce a spiegare viene cancellato dall’ontologia della nostra cultura. Con la coscienza ciò non si può fare perché la sua evidenza ha tutti i caratteri richiesti dal metodo galileiano. È infatti esperienza riproducibile, accessibile a chiunque, senza eccezioni. Non può essere fatta ricadere nello stesso ambito – ad esempio – delle guarigioni miracolose, che sono non riproducibili ed evidenti solo a chi ne è stato direttamente coinvolto. Chiunque ha esperienza della coscienza, senza eccezioni. Dovrebbe dunque essere possibile una spiegazione (cioè una riduzione), o almeno una definizione; ma questo non è il caso. Non vi è nulla di così evidente come la coscienza e al tempo stesso non vi è nulla di tanto indefinibile e inspiegabile. Ponendosi con spirito genuinamente fenomenologico di fronte a questo tema così misterioso, possiamo avanzare qualche considerazione.
La coscienza è al di fuori dello spazio e del tempo, a differenza delle azioni. Non è infatti localizzabile in un punto, è qualcosa che esiste ma non occupa un luogo; neanche sembra abitare il tempo, essa è infatti l’unica cosa che rimane rigorosamente immutata durante tutto il corso della vita dell’uomo. Essa fiancheggia il tempo, nel senso che è presente assieme alle azioni e ai mutamenti e tuttavia non agisce né muta.
Le esperienze umane sono per forza di cose parziali e limitate, circoscritte a un ambito particolare, per questo motivo la nostra rappresentazione della realtà avviene per enti, e rappresentiamo anche noi stessi come enti, delimitati e permanenti. Ma in questa rappresentazione difficilmente potrà emergere qualcosa come la coscienza, che non è “cosa” ma centro invisibile, filo che sostiene il soggetto all’interno del tutto; per questo motivo ritengo che la coscienza vada piuttosto considerata come una proprietà dell’Essere, dell’intera realtà, di cui le singole vite sono istanze e manifestazioni. In altri termini, ognuno di noi ha una particolare storia in dipendenza delle situazioni che si trova a vivere, ma in queste situazioni egli è anche attore e risponde secondo un modo di essere peculiare; questa modalità rappresenta l’essenza più profonda del mio essere, è qualcosa che esiste prima e fuori di me in quanto possibilità dell’Essere e che ha occasione di manifestarsi in un contesto preciso all’interno della mia vita. Con tutto questo, la coscienza non cessa di essere individuale poiché ognuno di noi realizza particolari possibilità, concretizzandosi come una lunga serie di risposte a situazioni determinate (che è quello che intendiamo quando pensiamo alla nostra vita). Infine, non mi crea grossi problemi il fatto che i livelli di coscienza possano essere molteplici nell’universo, come molteplici sono le possibilità del tutto, e l’uomo ne sia solamente la realizzazione di più alta complessità.

1 commento:

antonella benelli ha detto...

molto interessante