I buoni e i cattivi, Gandhi e il piccolo fascista


Ci fu un periodo nella mia vita in cui mi sembrava tutto molto chiaro, chi fossero i buoni e chi i cattivi. La storia dell’umanità, quella dei gruppi sociali, le avventure delle singole persone, la vedevo come il risultato di una dinamica, equilibrio di forze opposte in cui invariabilmente il Bene e il Male si fronteggiano; a volte vince l’uno a volte vince l’altro (ma alla fine sarà comunque il Bene a trionfare). L’epopea simbolo di questa visione del mondo e dell’uomo è la seconda guerra mondiale. Da una parte i tedeschi, cattivi senza speranza, incomprensibilmente malvagi, animati dal desiderio del puro male, come posseduti dal principe dei demoni; dall’altra gli americani e i partigiani, senza l’ombra di una contraddizione, puri come santi medioevali, bellissimi nel loro coraggio e nella loro lealtà, pronti a morire per salvare il mondo dalla barbarie. È chiaro che in una simile lotta la violenza è necessaria anche se dolorosa (perché i buoni non sono mai contenti di uccidere; lo fanno perché vi sono costretti, come a Hiroshima).
Poi però – considerando molte altre situazioni storiche – qualche dubbio cominciai a pormelo, non tanto sulla necessità di queste battaglie sanguinose per il trionfo del Bene, ma piuttosto su chi fossero in realtà i buoni e chi i cattivi. I crociati in Terrasanta, gli spagnoli nelle americhe, i romani contro i barbari, i cowboy contro gli indiani... necessità della guerra in nome di un messaggio superiore di civiltà o volontà di soggiogare e sterminare interi popoli? Forse è opportuno rifuggire dalle semplificazioni, diffidare dalla storiografia ufficiale (anche perché la storia la scrivono sempre i vincitori), esercitare il senso critico e provare a comprendere anche le ragioni dei vinti. Ma questo non mette in crisi la precedente visione: il mondo resta comunque diviso in buoni e cattivi, casomai bisogna capire bene quali sono gli uni e gli altri. Gli americani che erano la mano armata di Dio contro i nazisti diventano gli agenti del demonio in Vietnam, e come allora il sangue tedesco versato non suscitava alcuna pietà, così adesso ogni marine ucciso nella giungla rappresenta un necessario tributo pagato alla causa della giustizia e della libertà. Ritengo che questa sia la visione del mondo della maggior parte delle persone: abbastanza libere per cercare di capire da sole dove sta la ragione e dove la volontà di sopraffazione, abbastanza condizionate per aver comunque bisogno di guardare alla storia come a un film in cui alcuni personaggi sono eroi ed altri malvagi. Chi abbraccia questa concezione del mondo può tollerare che tu consideri eroe quello che lui o lei considera malvagio e viceversa (il capo militare marxista nelle foreste centroamericane piuttosto che il sindacalista cattolico nelle fabbriche polacche), ma non tollererà mai una generica dichiarazione contro gli eroi, perché “non puoi mettere sullo stesso piano chi combatte per difendersi e chi vuole rendere schiavo un popolo...”, “talvolta la violenza è una necessità...” e così via.
Tutto ciò non era per niente soddisfacente, e così, ricercando se veramente vi possono essere aspetti di positività o quantomeno di ragionevolezza nella violenza, ho incontrato una visione del mondo molto illuminata, che risolve alla radice il problema di decidere sotto quali condizioni una guerra è giusta: la nonviolenza radicale, secondo la quale nessuna guerra è giusta. Che bellezza le parole di Gandhi: Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto ad uccidere. Non potrebbe essere questo il punto di arrivo? Il rifiuto elementare di ogni azione violenta, senza se e senza ma, a prescindere dalle motivazioni addotte da chi cerca di giustificare la sua guerra, la sua rivoluzione, o il suo sistema politico oppressivo. Benissimo. Però restano ancora degli aspetti che non tornano. Sembra infatti che non ci sia verso di uscire dallo schema dei buoni e cattivi. Adesso i buoni siamo noi, i nonviolenti, e i cattivi tutti quelli che per risolvere i loro problemi impugnano la spada. Ma l’argilla di cui è impastata la mia carne non è forse la stessa di cui sono fatti i più feroci assassini? E se – orrore! – quella disumana violenza di Auschwitz fosse in realtà una violenza molto umana? Gli oscuri recessi della psiche degli aguzzini dei gulag non sono poi tanto diversi dai miei o addirittura da quelli di Gandhi. Per l’uomo preistorico la ferocia, la sopraffazione dei più deboli, il cannibalismo erano fattori di efficienza, utili per sopravvivere e quindi premiati dalla selezione naturale. Poi, con lo sviluppo di forme di socializzazione sempre più complesse, questa forza è rimasta sepolta dalle ingiunzioni dell’educazione, della morale, degli ideali, ma tuttavia sempre presente e pronta a uscir fuori manifestandosi come il piacere della crudeltà.
Eric Berne (il padre dell’analisi transazionale) chiama questa forza primordiale e distruttiva “il piccolo fascista”, un termine che rende alla perfezione il concetto che essa proviene da uno stadio molto primitivo della personalità, come un bambino che ancora non abbia affrontato il necessario percorso di socializzazione ed educazione. Siamo d’accordo che guardarsi dentro può essere un’esperienza sgradevole e persino terrificante, ma far finta di essere immuni da certe tendenze negative non le fa certo sparire; magari spariscono in una forma per riapparire in un’altra. Così il martire preferisce versare il suo sangue piuttosto che quello degli altri, purché del sangue venga comunque versato. Sicuramente il martire nonviolento è una figura assai più nobile del barbaro sanguinario, ma meglio di ogni soluzione ideologica (basata su pie illusioni o pregiudizi pessimisti riguardo alla natura dell’animo umano) è la strada che passa dalla conoscenza di sé stessi, e che porta a mettere in atto sistemi educativi e di controllo sociale che favoriscano lo sviluppo armonico degli individui e modi adulti e positivi, cosicché il livello della violenza venga contrastato dalla diffusa consapevolezza piuttosto che dalla repressione.

Nessun commento: