Allontanarsi, perdersi e ritrovarsi


Vivo nella mia quotidianità fatta impegni, fallimenti e successi, gratificazioni e biasimo, sensazioni piacevoli e spiacevoli, sogni e paure, aspettative e ricordi... Su tutto incombe un senso di limite, di incompletezza, per cui viene da chiedersi se non vi sia altro, un tesoro nascosto da qualche parte. È come se vivessi in superficie, costretto ogni giorno, ogni ora, a rimandare qualche cosa di veramente grandioso e significativo per occuparmi di cose relative, pressato dalla contingenza, dai miei doveri, dalle convenzioni del vivere sociale. E allora comincio a scendere nelle profondità del mio pensiero; se ho fortuna mi è capitato di incontrare nel corso della vita persone che sono già un pezzo avanti in questa strada di cui io adesso intuisco solo l’esistenza, magari leggo attentamente le opere di grandi maestri spirituali, sottopongo le mie emozioni a una attenta autoanalisi, e alla fine mi accorgo di avere iniziato a conoscermi. Ma il senso di insoddisfazione non si è dissolto; adesso ho la sensazione di dedicare ogni mia energia ad una vuota costruzione solipsistica, e che forse tutte quelle azioni superficiali e contingenti erano la realtà, l’unica realtà della mia vita, la verità del mio essere.
Nei valori dell’esistenza umana come nella scienza non c’è mai un punto di vista oggettivo, ma solo soggettività diverse da quelle precedentemente adottate. Però, forse, come molte altre contrapposizioni (tutte?), anche quella tra una vita proiettata all’esterno, dedicata a compiere azioni, e una vita ripiegata all’interno, incardinata sulla profonda conoscenza di sé e del mondo, è una falsa contrapposizione. Mi viene in mente un verso della Bhagavad Gita (IV, 18): “Colui che vede l’inazione nell’azione e l’azione nell’inazione, è un saggio tra gli uomini [...]”.
Certo è un fatto: fin dall’infanzia l’uomo acquista una struttura di valori che rappresentano spinte motivazionali. So che è importante che io faccia una certa cosa, il risultato che ne posso ottenere o il biasimo che me ne può derivare se non la faccio possono anche avere poche conseguenze sulla mia sopravvivenza, ma io li vedo come qualcosa di fondamentale per cui vale la pena di spendere tutto me stesso. Ho bisogno di controllare, di allungare le propaggini del mio corpo causale fin dove riesco ad arrivare, anche a costo di far male agli altri e me stesso; tutto ciò affinché gli accadimenti si conformino il più possibile (idealmente in maniera completa) al modello che ho in testa e che nasce dai miei desideri profondi, le mie paure, i pregiudizi e le costrizioni che l’educazione impose alla mia personalità. Magari riesco a raggiungere l’obiettivo, e per un attimo sono contento di me. Magari quella situazione che mi metteva ansia si risolve, e per un attimo mi sento al sicuro. Per un attimo. Ma subito qualcosa arriva a turbare l’effimero equilibrio e una sensazione sgradevole si impossessa di me, e l’impresa che tanto mi aveva coinvolto è adesso solo un’effige, priva del senso di attualità che possedeva quando ancora era un problema. Potrei non farci mai caso e accettare tutto ciò perché magari i miei genitori mi hanno insegnato che la vita è sofferenza e dovere e quando uno sta bene sarebbe opportuno che si sentisse in colpa; potrei anche cogliere l’insensatezza della situazione e reagire in maniera ottimista pensando che in fondo si tratta dell’ultimo sforzo, che tra un po’ le cose cambieranno, quando finirà l’università, il lavoro precario, i problemi finanziari...; potrei anche rendermi conto che si tratta di una dinamica dalla quale non si dà via di uscita. Allora mi domando: e se quella stessa energia che metto nel risolvere i problemi che ogni giorno mi creano ansia nell’illusione ogni volta di ottenere un equilibrio stabile e duraturo, la indirizzassi invece alla soluzione del problema di tutti i problemi, vale a dire come vivere tra i flutti del quotidiano mare agitato vedendo ogni accadimento nella sua pura verità e abbandonando quel castello di significati inautentici a cui mi sento obbligato a conformarmi?
La strada non è facile. Quando si abbraccia un cammino spirituale uno dei rischi maggiori è cadere nella trappola delle rappresentazioni, per cui i vecchi valori sono semplicemente rimpiazzati da nuovi, spesso ancor più rigidi. Può accadere che mi ritrovi a inseguire l’idea di illuminazione, un’idea che crudelmente mi fa correre lontano dalla luce (e più mi sforzo per raggiungerla più mi allontano). Ma chi potrà dirmi se vivo o sogno di vivere? L’indizio è questo: la verità dissolve le contrapposizioni, per cui le prospettive che ieri sembravano inconciliabili adesso appaiono in maniera naturale come facce diverse della stessa moneta; l’idea di verità, invece, crea i distinguo e fa proliferare le dispute, deve evidenziarsi staccandosi sullo sfondo dell’errore, è un peso da portare che a volte diviene insopportabile. Ma tutto ciò è solo un indizio. L’imponderabile che è nell’uomo ha l’ultima parola e sceglie se seguire l’indizio o fidarsi delle convinzioni a caro prezzo conquistate, rifugiarsi in esse e inesorabilmente precipitare nell’insensatezza della fatica quotidiana.

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