Conoscenza, coscienza, uomo


Della multiforme varietà dei fenomeni che avvengono nell’universo, l’atto della conoscenza è il più mirabile; dal punto di vista del soggetto conoscente essa è la libertà dell’Essere riportata alle categorie dell’esperienza umana. Da un lato c’è infatti il mondo fatto da un continuo movimento di esistenze particolari, secondo schemi e strutture a cui la materia obbedisce ma che non sono a loro volta materia: esse rappresentano l’autentica ossatura del reale. Dall’altro c’è una parte di questo stesso mondo, non separabile dal resto ma strutturata in maniera sufficientemente complessa da riuscire ad ospitare rappresentazioni della realtà: l’uomo. Se riflettiamo un momento su cosa accade quando conosciamo qualcosa (attenzione, conoscere è altra cosa dall’imparare) ci rendiamo conto che la conoscenza consiste nel connettere fenomeni ed esperienze diverse, che prima apparivano scorrelati, in un’unica categoria concettuale (appartiene a questa azione anche la creazione di nuovi concetti utilizzando concetti già esistenti, mediante relazioni e analogie). Da questo gioco di tessitura di una rete in cui ogni nodo concettuale rimanda ad altri ed è da questi definito non sorgono però i significati. Il significato è qualcosa che preesiste alle esperienze, e una volta che il soggetto incontra il fenomeno lo colora con i significati che ha a disposizione nella sua tavolozza. Ma che cos’è che preesiste alle esperienze se non la coscienza stessa? Per questo dico che i significati hanno la loro sede naturale nella coscienza.
Immaginiamo l’uomo come una manifestazione particolarmente complessa di una linea di possibilità sviluppatasi durante i miliardi di anni della storia della vita. È comunemente accettato e suffragato da risultanze osservative che nelle fasi iniziali di questo sviluppo la capacità di reagire all’ambiente e conformarsi ad esso è puramente chimico-fisica, ma già nelle forme di vita più primitive appaiono i semi di quello che alla scala dell’esperienza umana chiamiamo “individualità”, “predizione”, “volontà”, “memoria”…, tuttavia l’esperienza della soggettività è qualcosa di diverso. Si può concepire che un sistema sufficientemente complesso possa riservare all’interno delle proprie rappresentazioni dei simboli per indicare sé stesso e che sviluppi evolutivamente dei comportamenti e delle attitudini volte alla conservazione sua e della specie a cui appartiene, tutto questo però non riguarda in alcun modo il “sentire”, ma solo i “modi del sentire”. Cos’è dunque che dà colore alle percezioni, che rende significativi i pensieri, che testimonia silenziosamente la molteplicità dei processi sensoriali e psichici che formano la vita dell’individuo se non il suo essere più essenziale e fondamentale? La realtà profonda degli enti è data dalla loro struttura, dalle relazioni interne ed esterne, e la materia di cui sono fatti è nient’altro che un’occasione per partecipare alle dinamiche di un particolare segmento dell’Essere; perciò ha senso chiamare “anima” una delle infinite possibilità che si concretizzano nella particolare esistenza di un uomo ma che hanno la loro profonda e solida realtà a prescindere dalla istanza realizzata. La realtà non è fatta di parti isolate e l’Essere si autosostiene nell’esistenza, cosicché i modi particolari partecipano dell’armonia del tutto e non possono venir cancellati quando una particolare istanza cessa; essi furono, sono e saranno perché dall’intera realtà non si può staccare neanche il più piccolo frammento senza che la contraddizione divori il Tutto. Vi è dunque per ogni processo fisico – dalle più semplici reazioni chimiche ad ogni singolo essere umano – una esistenza nel Tutto, eventualmente instanziata nelle particolari manifestazioni in una delimitata regione di spazio-tempo. Ogni manifestazione riconoscibile di strutture, processi, relazioni ha in virtù della sua evidente esistenza contingente il diritto ad un’esistenza formale che costituisce il Tutto, protetta in qualche modo dalle fluttuazioni della contingenza. Naturalmente la deduzione inversa non è valida: se la presenza comporta l’essere, la non-presenza non comporta il non-essere. Ciò che non è evidente qui e ora può comunque godere di una solida esistenza nel cuore stesso dell’Essere. Se dunque possiamo riferirci alla coscienza personale come a una manifestazione delle strutture ontologiche più elevate, qualcosa di universale ed eterno di cui la vita terrena è una semplice manifestazione in un teatro delimitato, veramente possiamo dire che nulla di noi va veramente perduto. Ogni avventura umana presente, passata, che potrebbe essere o essere stata, è incastonata come gemma nell’immensità del principio dal quale tutto fluisce e al quale tutto ritorna, in perfetta unità.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Credo di intuire questa sua interpretazione, dell'esistente come ricco di senso, della morte come non morte... Niente è perduto, niente è senza senso, anche quello che di umano di noi svanisce come materia resta come significato... anzi è.
Leila

alessandro cordelli ha detto...

...sì, non è forse così folle pensare che la realtà ci appaia sconnessa e incomprensibile solo a causa della prospettiva limitata da cui osserviamo lo svolgersi degli eventi, ma che in realtà le complesse dinamiche che si svolgono nello spazio e nel tempo siano solo manifestazioni elevate della profonda unità che tiene insieme il tutto.
A.C.

Maurizio Spagna ha detto...

IN DUE
…ogni volta, sorvegliamo la libertà mentale
e la rivediamo al sicuro tra le pareti di una strada,
indebolita da varie confessioni…

Succede
Che per la strada
Sbandiamo un po’
Con l’obliqua libertà
Una libertà
Che vuole prendersi
La parte di noi sbarazzina
La furia di noi e il ragazzino innocente.

E sono solo sul suolo
Come un uomo imbavagliato
Che lascia dei suoi occhi
Il contorno dell’età.

La libertà a volte
È così pesante
Che resistiamo in quella incoscienza
Amica libertà
E libertà di essere nemici.

Tutti riempiamo bagagli di noi
E impiliamo una sull’altra esperienze.

Testardaggini
Come la prima volta
Che gravitiamo liberi
Perché di tempo ce n’è
Per fermarsi al perdono
Asceso.

E poi
La gente fuggiasca e via
Così all’improvviso
Andata di segnaposto
A ricominciare i vent’anni
E poi
Succede
Che abbiamo saputo mendicare di noi
Uno schianto al cuore
Nel bivio più imbrigliato.

E sono solo un uomo
Rapito dalla libertà
E dall’interrogatorio…
Come se fossimo in due.


©
di Maurizio Spagna
Da “Il cuore degli Angeli”
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L’ideatore creativo,
paroliere, scrittore e poeta al leggìo-