L'illusione di sapere


Troppo spesso vogliamo produrre o trasmettere conoscenza senza avere una chiara idea – non dico della natura della conoscenza – ma nemmeno dei suoi limiti. Ogni volta che volgiamo lo sguardo al mondo rinforziamo l’illusione che esso sia realmente così come noi lo percepiamo. Eppure neanche noi stessi ci percepiamo così come siamo: lo stomaco può iniziare a bruciarmi solamente per conformarsi all’immagine che ho del mio corpo, distorta da un senso di colpa o per non riuscire a sfogare le tensioni nascoste nella parte più arcaica della psiche. Figuriamoci allora quanto poco deve somigliare l’universo alle rappresentazioni che ci facciamo di esso. Una delle poche certezze che esistono è che nessuna osservazione potrà mai essere fatta al di fuori di una mente cosciente, centro unificante di molteplici esperienze, che per sua comodità raggruppa relazioni correlate in enti. Ma il Sole non sa di essere Sole. Siamo noi che rileviamo una molteplicità di trasferimenti di energia in correlazione con tutta una serie di altre esperienze; per questo troviamo conveniente dire “il Sole brucia”, “il Sole si muove”, ecc. Chissà com’è l’universo senza una mente cosciente ad osservarlo, senza i concetti unificanti di “ente”, “spazio” e “tempo”... magari un armonico intreccio di possibilità e relazioni in cui ognuna ne implica molte altre.
Se dunque la ricerca della conoscenza dovrebbe essere tanto umile di fronte alla Natura e consapevole dei limiti del soggetto, quanto più simili sentimenti saranno necessari nel trasmettere il sapere. Che cos’è “insegnare”? Ecco una domanda che mi pongo già da molto tempo, che mi pongo tutt’ora, e chissà per quanto tempo continuerò ancora a pormi. Troppo semplice liquidare la domanda con una risposta tipo “trasmettere informazioni”: l’insegnante non è un bollettino meteorologico. “Trasmettere conoscenza” suona meglio (anche se contiene sempre quell’antipatico verbo radiofonico), ma non è un’espressione ben definita dal momento che la conoscenza stessa è qualcosa che molto difficilmente si lascia inquadrare in una definizione. Indubbiamente le informazioni rappresentano una parte importante della conoscenza, ma non la esauriscono (un computer non conosce i dati scritti sul suo disco). Nella conoscenza le informazioni sono inserite in una attitudine consapevole, una visione dell’uomo e del mondo al cui interno si vestono di significato; si tratta di un’operazione della coscienza, qualcosa di assolutamente personale. È assurdo (e mostruoso) pensare che io possa in qualche modo trasferire ai miei allievi qualcosa di così intimamente mio come quell’ineffabile facoltà della coscienza che trasforma l’informazione in conoscenza. Oggi nelle nostre scuole si tende ad affermare il concetto che “insegnare” significhi “insegnare a fare qualcosa” (a risolvere esercizi di algebra, a tradurre brani letterari dal latino o dal francese, a sostenere conversazioni erudite sulla storia, la filosofia o la letteratura...); questa impostazione viene giustificata dicendo che così la scuola è moderna, che fa il vero interesse degli studenti i quali, acquisendo abilità specifiche, saranno facilitati da adulti nella ricerca di un posto di lavoro. Spesso sono i ragazzi, e le famiglie, a sostenere tale argomento; una cosa che suscita in me profonda tristezza e anche un po’ di rabbia. Mi vengono in mente dei maialini che guardano con fiducia e riconoscenza l’allevatore che porta loro il cibo, quello stesso allevatore che a Natale li sgozzerà. C’è infatti qualcosa di profondamente subdolo nella (vaga) promessa di una stabilità sociale per coloro che sapranno essere efficienti produttori e abili problem solver. Il prezzo da pagare è infatti molto alto: la rinuncia a percorsi formativi che lascino spazio alla libera crescita dello spirito in direzioni imprevedibili, alla scoperta della sublime inutilità delle cose più belle, all’irriverente sguardo disincantato sulle cristallizzate strutture del sapere. E così vedo già quei cittadini che saranno domani pienamente funzionali a un sistema di valori, relazioni economiche, rapporti sociali, che ha come unico fine la propria autoconservazione: produttori efficienti e consumatori diligenti. Spiacente, ma i miei alunni non saranno mai dei problem solver (o lo diventeranno malgrado me).
Se guardo al lavoro che quotidianamente si svolge nelle classi non posso non rilevare una sensazione di fatica e profonda inutilità che accompagna quelle lezioni caratterizzate da nozioni e procedimenti che devono essere acquisiti dagli alunni, in posizione completamente passiva. Al contrario, le lezioni che lasciano addosso un senso di autenticità ed entusiasmo sono quelle in cui la classe è libera di muoversi, si appassiona a un problema, tenta nuove strade, si disorienta di fronte a un mondo più complesso e problematico di quanto trasmettano le esperienze della vita quotidiana, e talvolta intravede nella nebbia un profilo di verità. E l’insegnante, che ruolo ha in tutto ciò? Egli è sovversivo, destabilizzante. Non sta lì per creare certezze, ma per distruggerle. Nessuna ipotesi è troppo scabrosa o grottesca da non poter essere gettata sul tavolo della discussione e suscitare la critica, e la critica della critica. Mi sto alla fine convincendo di una cosa che suona quasi paradossale, che il senso profondo dell’insegnamento non sia qualcosa legato al “riempire” (le menti degli allievi con nozioni, procedure, pregiudizi culturali), ma piuttosto allo ”svuotare”. È la “pedagogia del vuoto”, opposta alla più tradizionale “pedagogia del pieno”. Svuotare, fare spazio, liberare... togliere i pregiudizi che impediscono di prendere in considerazione tutte le possibilità, demolire le certezze che magari fanno vivere meglio ma in un mondo fasullo, rimuovere l’ingiustificato senso di inadeguatezza a camminare con le proprie gambe associato ad un altrettanto ingiustificato senso di dipendenza verso la figura genitoriale dell’insegnante che (solo lui) può guidare sulle misteriose strade del sapere. Ecco l’insegnante che ho in mente (e che vorrei essere): un insegnante che solleva problematiche mai prese in considerazione dalla classe, un insegnante che scopre pregiudizi, svalutazioni, superficialità e le rende manifeste creando un sano disagio nella classe, che scandalizza i suoi allievi rovesciando prospettive considerate acquisite una volta per tutte, un insegnante che al momento opportuno sa anche farsi da parte per lasciare ai suoi allievi il diritto ad una crescita che potranno avere solo a patto di provare la fatica di inventare, criticare, organizzarsi, sbagliare.

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