Delle cose militari


Quando, studiando la storia del passato o leggendo i fatti del presente, ci si trova di fronte alla guerra vi è una tendenza inconsapevole a formulare giudizi articolati; ad esempio decidere chi sono i buoni e chi i cattivi, ragionare sulle cause che hanno portato al conflitto, ipotizzare conseguenze positive in seguito all'affermazione di un nuovo ordine. Talvolta è capitato e capita anche a me, ma se mi metto a riflettere cercando la radice più profonda di tutto ciò, mi accorgo che questo è sbagliato. Non vi è infatti nessuna considerazione che si addice alla guerra, eccetto il suo rifiuto semplice e radicale. Qualsiasi guerra (guerra di secessione, guerra di successione, guerra di conquista, guerra partigiana, guerra di liberazione, guerra santa, guerra portatrice di democrazia...) la si ottiene dal genere "guerra" aggiungendo un'opportuna differenza specifica. Ma una specie eredita dal genere tutti i suoi caratteri e poi ne aggiunge di nuovi che però non possono essere in contraddizione con quelli precedenti; come può dunque essere inaccettabile la guerra (cosa che a parole tutti proclamano) e poi addirittura santa la guerra fatta in nome della religione?
Non ci sono molte analisi da fare sui vari eventi bellici; una sola parola è opportuna: rifiuto. Di solito, arrivati a questo punto della discussione le "persone di buon senso" sfoderano un argomento apparentemente formidabile: va bene, ma cosa avresti fatto con Hitler o con Bin Laden? Avresti lasciato che tutto il mondo cadesse sotto il giogo nazista o che alle donne italiane venisse imposto il burka e che la basilica di San Pietro fosse trasformata in una moschea? L'argomento è sottilmente fallace, dato che considera una dinamica sociopolitica solo nella sua fase finale anziché nella sua interezza. Non si parla infatti delle condizioni oggettive che portarono la Germania del primo dopoguerra a precipitare nell'incubo nazista, né delle ingiustizie perpetrate in molte parti del nordafrica e medio oriente che hanno regalato validi argomenti all'integralismo islamico. La contraddizione si è mostrata in tutta la sua evidenza nell'ultima crisi internazionale, laddove un capo di governo occidentale (ahimé, il nostro!) baciava l'anello a Gheddafi e dopo poche settimane mandava aerei da guerra a bombardare la Libia.
Il fatto è che l'ingiustizia, la corruzione e lo sfruttamento generano risentimento e instabilità e creano le condizioni ottimali per l'esplodere della violenza organizzata. Quando poi si è passato il punto di non ritorno ecco che le "persone di buon senso" ci spiegano come di fronte a mali ben più gravi o per proteggere civili inermi non c'è altra strada che un "intervento umanitario" (grottesco ossimoro, come se nel tirare bombe a casaccio sui quartieri delle città possa esservi qualcosa di umanitario).
Insomma, la guerra non deve neanche essere presa in considerazione, è un confine da non valicare per nessun motivo, poiché la guerra è morte incomprensibile. La morte infatti non è necessariamente qualcosa di male: senza la morte noi saremmo ancora - dopo tre miliardi e mezzo di anni - un esercito di protobionti che sguazzano nel brodo primordiale; con la morte chi ha già giocato la sua partita lascia libero il campo ai nuovi, liberando risorse e lasciando in eredità un prezioso capitale di conoscenze e di saggezza. La morte però, per essere accettata e comprensibile, deve seguire le sue regole, che sono essenzialmente due. In primo luogo un genitore non dovrebbe mai seppellire il proprio figlio; la seconda regola è che un uomo (o una donna) non dovrebbe mai morire quando i suoi figli hanno ancora bisogno di lui (o di lei). Bene, nella guerra queste regole vengono violate entrambe; nei campi di battaglia giovani vite vengono troncate lasciando anziani genitori preda di un dolore così straziante che non può essere neppure concepito e bambini disorientati che non avranno la più importante guida nel cammino verso l'età adulta. Nella guerra tutto è assurdità e follia, l'orrore è talmente grande da sovrastare le buone ragioni - se ve ne sono - come il fiume di fango di una frana travolge un piccolo fiore. Mi spiace quindi per la patria che chiama, per il proletariato oppresso che reclama la sua libertà, per la democrazia che deve essere portata a popoli arretrati che vivono ancora secondo codici medioevali, per la giusta causa della lotta al terrorismo... ma tutto questo mi puzza di tragico inganno, perché un soldato morto - da qualsiasi parte abbia combattuto - ha comunque perso. Perciò di fronte alla guerra, qualsiasi guerra, ho solo una parola: no.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Sostengo la medesima posizione: no alla guerra. Ma alla fine, il problema che fa nascere una guerra..qual'è?Non è il desiderio di egemonia da parte di uno stato, scaturito da uno scontato ma irrunciabile desiderio di sicurezza?Se durante i secoli scorsi questa egemonia era prettamente territoriale ed economica col passare del tempo è divenuta politica e culturale. Ciò che i paesi occidentali vorrebbero imporre in medioriente è la loro cultura (oltre alla loro bandierina sui giacimenti petroliferi). Ma perchè questo? Non sarà forse perchè è più sicuro un mondo che si conforma al prprio modello di vita? Questo taglio sembrerebbe appartenere al filone realista delle relazioni internazionali, ma non è così. Io sono convinta, è vero, che il più grande problema sia l'insicurezza e il senso di incertezza ad essa correlato, ma la visione realista fa rientrare la guerra come possibile mezzo di soluzione. La posizione realista nelle relazioni internazionali basa la propria teoria sulla convinzione che il sistema internazionale sia caratterizzato dall'anarchia, dal conflitto tra gli stati: una situazione in cui prevale la legge del più forte. Condivido l'impostazione realista ma la ritengo semplicistica e limitata, in quanto lascia fuori numerose questioni e assume una visione statica della storia. Tra le questioni che non considera rilevanti c'è il fatto che c'è una tendenza cooperativa nella natura umana, che a livello internazionale esiste una società anarchica e non un sistema anarchico, che ci sono altri attori oltre che agli stati, ed inoltre non viene considerato un fenonomeno come la globalizzazione (fenomeno all'interno del quale gli stati nazione stanno perdendo terreno sulla gestione dell'economia). Penso che per arrivare a superare la visione realista ci sia bisogno di cooperazione e quindi nutro fiducia nel ruolo delle istituzioni internazionali e dei risultati che può portare l'interdipendenza. Le istituzioni internazionali a cui aderiscono i vari paesi dovrebbero però operare su un livello di parità e non perpetuare discriminazioni verso le potenze più deboli (ciò che ad esempio avviene all'interno del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dove i cinque membri permanenti sono i paesi più rilevanti a livello mondiale). Queste ultime affermazioni sembrano utopistiche, ma un esempio cooncreto di successo riguardo la cooperazione è senz'altro l'Unione Europea, che dal secondo dopo guerra ad oggi ha costruito un sistema che ha garantito sicurezza, forza e sviluppo ai paesi aderenti. Le lacune sono state causate dal persistere di interessi nazionali e quindi dalla mancanza di coraggio ad avviare un unione politica oltre che economica. Gli stati dovrebbero abbandonare il loro nazionalismo. Altri valori ed interessi dovrebbero prevalere: primo tra tutti riconoscere l'importanza e l'uguaglianza di tutti gli esseri umani. Arrivo alla conclusione che la soluzione risieda nella politica, una politica che non sia handicappata: che non sia cieca, sorda e muta ma che riesca ad individuare soluzioni, che si orienti verso i reali desideri della Maggioranza dei propri cittadini. M.S.

alessandro cordelli ha detto...

...ti ringrazio per l'articolato commento e la tua interessante analisi.

Anonimo ha detto...

Hai fatto il militare o l'obiettore?

alessandro cordelli ha detto...

...perché me lo chiedi?
Comunque ho fatto il militare.

Anonimo ha detto...

Perchè ragionavo sul fatto che se lei può dissertare tranquillamente seduto alla sua scrivania, con le ciabatte ai piedi ed il riscaldamento acceso è perchè qualcuno 60 anni fa si è sacrificato. Che poi le guerre nascano da dinamiche molto più complesse del semplice buoni e cattivi è innegabile, ma non è 'sottilmente fallace' dire che Hitler andava fermato.
Poi ho pensato che forse il suo no se lo è guadagnato sul campo, magari lottando per l'obiezione di coscienza negli anni '70, ma naturalmente lei ha fatto il soldato. Per non fare la guerra bisogna per lo meno, prima di tutto, non fare il soldato.

alessandro cordelli ha detto...

caro Anonimo:

proverò a togliermi le ciabatte, a spegnere il riscaldamento e a riflettere un po' sulla sua risposta. Intanto, mi piacerebbe capire come mai questo tema la coinvolge tanto a livello emotivo; dopotutto questo è un blog filosofico, non giornalistico e tantomeno politico. La mia è una riflessione antropologica che riguarda la natura dell'essere umano. Possiamo rimanere con la convinzione che le dinamiche sociali siano per sempre condannate a risolversi in bagni di sangue - come è stato negli ultimi 12.000 anni - oppure prendere in considerazione l'ipotesi che l'uomo sia destinato ad evolversi e superare lo stadio attuale (cosa di cui nel corso della storia sono stati convinti grandi spiriti come Buddha, Gesù, San Francesco, Gandhi... per citarne alcuni). Naturalmente, per abbracciare tale prospettiva occorre fin da ora denunciare lucidamente l'inganno della "guerra giusta" e coltivare una visione del mondo in cui la violenza venga pian piano espulsa.
Riguardo infine alla faccenda che solo chi ha fatto l'obiettore dovrebbe avere diritto di esprimersi contro la guerra, mi sembra una posizione assai singolare. Per fare un esempio, uno dei più grandi capolavori della letteratura pacifista è "Niente di nuovo sul fronte occidentale" scritto da Remarque che quella guerra di cui denuncia le atrocità se l'era fatta tutta. Per parte mia, in quell'anno non voluto (ma che comunque non rinnego) ebbi modo di toccare con mano l'abissale stupidità del mondo militare.