Sulla fine della violenza


In queste pagine già altre volte ho parlato di violenza, e quegli interventi hanno suscitato commenti polemici. La mia posizione è che non si può distinguere tra un utilizzo riprovevole della violenza e un utilizzo lecito o addirittura positivo. Non esistono guerre giuste né eroi, in un confronto in cui scorre il sangue non riesco a vedere nessuna differenza tra buoni e cattivi. Capisco che molti trovino questa posizione difficile da digerire. E forse non hanno torto: come si può rimanere inermi di fronte alla prepotenza e al sopruso? Come si può mettere sulla stesso piano chi attacca e chi lotta per la propria sopravvivenza? C'è da dire però che molte volte la minaccia da fronteggiare non è proprio una minaccia mortale, anzi magari non è neanche una minaccia, ma solo una mancanza di rispetto, un danno alle cose, un'offesa indiretta, o addirittura un nulla male interpretato. Viene allora da chiedersi se vale la pena rovinare la parte più profonda e nobile di noi stessi per difendere qualcosa che per sua stessa natura siamo comunque destinati presto o tardi a lasciare, oppure che non esiste proprio se non nei nostri schemi mentali, come l'orgoglio. A parte ciò, la domanda che viene spontanea è un'altra: quanto è praticabile la non-violenza all'interno di una società violenta? Mi sembra che il punto sia proprio questo. Non si tratta di rimuovere la violenza o le disuguaglianze o la menzogna dalle nostre vite, ma piuttosto di compiere un balzo di evoluzione culturale verso un nuovo stato di coscienza collettiva in cui violenza, disuguaglianza, menzogna siano opzioni non più prese in considerazione. Nel corso della storia dell'umanità questi salti evolutivi sono avvenuti ogni tanto. Se infatti biologicamente siamo indistinguibili dai nostri antenati di 10000 anni fa, qualche differenza tra l'uomo contemporaneo e quello vissuto agli albori della civilizzazione indubbiamente c'è. Ma come si può innescare un processo che su larghissima scala porti a una discontinuità di questa portata? Fin dai secoli antichi alcuni grandi maestri hanno indicato agli uomini la strada verso una liberazione interiore, una strada che passa dalla conoscenza e controllo della propria mente, ma solo negli ultimi decenni l'interesse verso queste pratiche di introspezione e auto-conoscenza ha assunto le dimensioni di un fenomeno di massa. Riconoscere gli impulsi che salgono prepotenti dai livelli più primitivi del cervello, vedere chiaramente i condizionamenti originati dall'educazione, assumere un punto di vista distaccato che permetta di giudicare con equanimità le situazioni, sono tutte doti che proiettano l'uomo verso una dimensione sociale ancora inesplorata e dalle straordinarie potenzialità. Riportato alla propria essenzialità l'uomo fonda la morale sull'empatia piuttosto che sui sensi di colpa derivanti da antiche ingiunzioni genitoriali, rende perfetta la propria vita mentale illuminando ogni pensiero con la luce della consapevolezza, riconosce che di tutti gli aggregati di cui fa parte solo quelli estremi – il proprio cerchio di influenza diretta e l'intera umanità – sono autentici, mentre le collettività intermedie (popolo, nazione, chiesa, classe sociale...) sono illusioni, spesso pericolose e gestite da gruppi di individui privilegiati nell'interesse di consolidare e accrescere il proprio potere. Per questo ritengo che mettere in pratica e diffondere l'antico motto socratico del “conosci te stesso” sia la cosa più significativa che possiamo fare per noi stessi e per quelli che verranno dopo di noi.


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