L'imperatore e l'indovino (un racconto in prospettiva stoica)


Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila,
in ogni modo ricordati di una cosa: nessuno perde una vita diversa da quella che
in quell'istante ha; né altra vita vive se non quella che in quell'istante perde.
(Marco Aurelio)

L'imperatore scese in strada di primo mattino, accompagnato dalla sua scorta e da un ristretto gruppo di dignitari di corte, generali e uomini di scienza. Il sole della tarda primavera scaldava già le strade della capitale, brulicanti di attività. In quei giorni il giovane imperatore si trovava a vivere un momento magico: aveva concluso da poco una vittoriosa campagna militare contro i popoli delle steppe, a oriente e a nord, la sua gente era soddisfatta e lo amava. Per questo motivo si concedeva volentieri delle passeggiate fuori dalle mura del palazzo, tra le strade della città, come quella mattina. A un certo punto l'attenzione del gruppo fu attirata da un tumulto che si era sviluppato nei pressi del banco di un venditore di frutta. L'imperatore, incuriosito, chiese di sapere che cosa stava accadendo, così le sue guardie buttarono da parte senza troppi complimenti la piccola folla, lasciando al centro dello spiazzo un uomo dall'aspetto inquietante. Non era certo vestito come un cittadino: era oltremodo sporco, aveva barba e capelli lunghi e incolti, stracci colorati e logori lo coprivano. Il fruttivendolo sbraitava che quell'uomo gli stava rubando la merce mentre lui contrattava con altri clienti. Le leggi vigenti erano particolarmente dure contro i ladri, e anche il furto di una mela poteva comportare la tortura o una mutilazione. Il sovrano chiese dunque all'uomo cosa avesse da dire in sua discolpa, ma questi - ignorando completamente la questione che lo riguardava così da vicino - piantò i suoi nerissimi occhi in quelli dell'imperatore e disse: «io non ho un tetto sotto cui ripararmi di notte, né un soldo per comprarmi qualcosa da mangiare, ma fino dagli anni della mia giovinezza gli dei hanno voluto darmi un dono inestimabile, un dono però che in momenti come questi è per me un peso molto gravoso da sopportare». « Di quale dono parli - replicò l'imperatore - e perché vorresti adesso che gli dei non te lo avessero dato?». «Mio signore - rispose l'altro - io riesco a leggere con tanta chiarezza nelle pieghe della realtà e nei recessi dell'animo umano da intuire in maniera misteriosa quello che ancora non è accaduto ma che quasi certamente accadrà. Io sono, in buona sostanza, quello che voi chiamate un indovino.» Con un sorriso sforzato, che tradiva un certo disagio, l'imperatore lo incalzò: «un indovino? Vediamo allora, cosa accadrà al tuo sovrano in questa giornata appena iniziata?» Con voce grave e senza abbassare lo sguardo , il sedicente indovino rispose: «Mio signore, per questo vorrei essere cieco rispetto al futuro, per non dover dire quello che adesso vedo». «Cioè?» chiese il sovrano. «Che oggi non vedrai tramontare il sole», sentenziò l'altro.
L'imperatore scolorì in volto e, senza dire una parola, tirò le briglie del suo cavallo e si allontanò rapidamente dal mercato seguito dalla scorta e dai dignitari. Per come era vestito e per come parlava, e soprattutto per quel suo sguardo così intenso, quell'uomo avrebbe potuto essere benissimo uno di quegli eremiti che vivono nelle grotte delle montagne del nord, considerati dagli abitanti dei villaggi vicini come dei veri santi, in perpetuo contatto con le forze del cosmo. D'altra parte i suoi più stretti consiglieri gli suggerivano di non prendere sul serio quello che probabilmente era solo un accattone, un furfante, che vistosi scoperto aveva improvvisato quella messinscena per creare trambusto e dileguarsi. Il sovrano accettò il parere basato sul buonsenso, ma era chiaro a tutti che non era tranquillo. Per tutta l'ora successiva, mentre accudiva agli affari di stato, era distratto. Non ascoltava quello che gli altri gli dicevano e guardava spesso fuori dalla finestra, al Sole. A un certo punto scattò in piedi e, senza dire una parola, si allontanò a grandi passi dal tavolo di lavoro. Uscì dal palazzo, saltò in sella al suo cavallo e iniziò a galoppare velocissimo verso occidente. Nessuno osò seguirlo.
Se inseguo il Sole, pensava, non arriverà mai l'ora del tramonto e con essa la morte predetta dall'indovino. Questo pensiero gli diede energia ed entusiasmo, tuttavia dopo qualche ora si rese conto con sconforto che non avrebbe potuto farcela. Il Sole infatti correva in cielo più veloce del suo cavallo (che tra l'altro cominciava ad essere esausto) e, se quando aveva lasciato il palazzo era ancora basso sull'orizzonte, adesso era già alto al mezzogiorno. Si ricordò però che in quella parte dell'impero in cui adesso si trovava viveva uno stregone molto potente, esiliato in un villaggio delle province occidentali qualche anno prima. Non fu difficile trovare la dimora del mago. Questi era sulla soglia, come se lo stesse aspettando. Disse il sovrano: «Il mio cavallo non può farcela con il Sole. So che tu hai creato animali strani e meravigliosi, che non si trovano nei villaggi né nella foresta; dammi quindi un destriero che sia in terra più veloce di quanto il Sole è nella sua corsa in cielo». Senza proferire parola lo stregone rientrò nella sua dimora e dopo qualche minuto riapparve portando, legata a una catena, una creatura terrificante e meravigliosa. Non è chiaro di quante e quali specie diverse lo stregone avesse mescolato il sangue per ottenere quello strano essere vivente. Vi era la forza e la maestà del leone, l'indifferenza alla fatica del cavallo, la leggerezza degli uccelli, la determinazione di un grosso rettile. L'animale si chinò mansueto lasciando che il sovrano gli montasse in groppa. Solo allora il mago parlò: «questa creatura è venuta al mondo per correre; nel momento in cui lascerò questa catena essa ti porterà, veloce come il vento e più del Sole, ma non si fermerà mai. Sei sicuro che è proprio questo che vuoi?» «Certo», rispose con baldanza l'imperatore. Egli pensava infatti che non solo non sarebbe morto quel giorno, ma che non sarebbe morto mai più, che sarebbe diventato una specie di divinità, cantata dai poeti, che in groppa a un animale meraviglioso segue il corso del Sole nei giorni e nelle stagioni, per sempre.
«Dunque, così sia» disse lo stregone lasciando cadere a terra la catena dell'animale meraviglioso il quale si lanciò immediatamente nella sua corsa senza fine verso occidente. Inizialmente l'imperatore fu spaventato dalla straordinaria velocità della creatura, ma si abituò ben presto al nuovo passo e al vento impetuoso che tirava indietro i suoi capelli. Guardava compiaciuto il sole sopra di lui, osservando come la corsa dell'astro si fosse finalmente bloccata; quella specie di mostro correva davvero veloce come il Sole. Passò ancora qualche ora e l'imperatore si rese conto che adesso si trovava ben oltre i confini del suo regno, in terre di cui aveva a mala pena sentito parlare dai commercianti di spezie e seta. A un certo punto un nastro argentato iniziò a baluginare debolmente all'orizzonte. Non ci volle molto all'imperatore per realizzare con sgomento che le terre emerse finiscono nel grande oceano occidentale. Mentre il mostro, obbediente solo al suo cieco istinto, si tuffava nelle onde il sovrano pensò che se lo strano personaggio incontrato la mattina al mercato era davvero un indovino era stato stolto cercare di sottrarsi al proprio destino, mentre se si trattava di un impostore da quel giorno avrebbe a buon diritto potuto fregiarsi del titolo di indovino, dato che era riuscito a prevedere con esattezza un fatto così grave e rilevante. Ma in fondo, che cosa c'è di più stolto che dirigere tutti i nostri sforzi a cambiare cose che non dipendono da noi? Poi, annegò.

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