I bisognosi


Capita spesso che le persone non si sentano libere, e per questo soffrano. A volte sono inquiete perché avvertono questo senso di mancanza di libertà ma non riescono a metterne a fuoco le cause né una strategia per superare il problema. Altre volte si lanciano in battaglia contro chi o cosa ritengono stia tra loro e la loro libertà. Molto spesso si rassegnano. Qualsiasi risposta conforme a collaudati modelli culturali difficilmente potrà essere efficace. La libertà richiede innanzitutto un moto di creatività esistenziale, per questo motivo l’uomo libero è essenzialmente un uomo nuovo.
Il segno distintivo del modo di essere dell’uomo nuovo è quello che nelle categorie attuali potremmo definire “povertà”, nel senso più ampio. Non sono infatti solo le cose che ci incatenano, ma anche le imprese, l’ambizione, il senso del sé, i valori e gli ideali, addirittura gli affetti. Ognuna di queste cose è una pietra che trascina lo spirito umano nel fondo di un lago torbido; non c’è modo di tornare in superficie arrangiando le pietre in modo virtuoso, l’unica soluzione è abbandonarle.
Eppure nel sistema di valori che – con lievi differenze – regge le società umane dal neolitico ad oggi, l’abbondanza di vincoli e contraddizioni è sinonimo di ricchezza. L’essere umano è infatti sociale per essenza, nel bene e nel male. Nel bene, in quanto la socialità manifesta una delle tendenze più fondamentali dell’essere, cioè quella volta a creare relazioni (quindi complessità, informazione) nella direzione dell’unità. Nel male perché vi è sempre la possibilità di deviazioni caratterizzate dal fatto che il particolare utile prenda il posto del bene comune; in tal modo sorgono valori che, presentati come assoluti, hanno tuttavia la finalità nascosta di favorire un gruppo rispetto all’altro. Una visione poco chiara e non sufficientemente profonda interpreta l’anelito alla vita e alla socialità come autoaffermazione e prevaricazione di un gruppo sugli altri. Qui avviene l’equivoco, in quanto il valore universale che ha la sua radice nell’Essere stesso viene deformato per giustificare la dinamica imperfetta. Con ciò ha luogo il conflitto. Innanzitutto conflitto all’interno dell’uomo e della sua coscienza morale perché viene percepito il contrasto tra l’universale che riposa nel fondo del cuore e il contingente con lo stesso nome che viene dall’esterno. Da qui al conflitto degli uomini tra di loro e tra l’uomo e il suo ambiente il passo è breve. Abbiamo così la violenza politica basata sulla giustizia sociale, la guerra basata sulla solidarietà della comunità nazionale, la speculazione finanziaria basata sulla libertà economica, il fanatismo religioso basato sulla fede. È molto difficile superare le spinte che portano a questi conflitti; già rendersene conto mi sembra una gran cosa. L’ambizione e l’autoaffermazione consumano l’esistenza della maggior parte degli esseri umani, ma quanto è giusto tutto ciò? E quanto è inevitabile?
La via della liberazione dal dolore auto-inflitto passa necessariamente per una sostanziale povertà. Con un termine un po’ desueto coloro a cui manca il necessario per vivere vengono talvolta chiamati “i bisognosi”, e tipicamente associamo a questo aggettivo l’idea di persone molto povere. Se però guardo intorno a me, i bisognosi che scorgo sono soprattutto persone con un alto tenore di vita, gente dal mondo delle professioni con belle case e belle macchine. Costoro non hanno il problema di mangiare o di un tetto, eppure spesso mancano delle cose più importanti. Molti di loro hanno alle spalle fallimenti matrimoniali o situazioni familiari mai chiarite; vivono schiacciati dall’ansia ma non riescono a rinunciare a nessuna sfida; il conflitto con clienti, colleghi, concorrenti è la cifra del loro agire sociale, per cui o loro spingono altri ad agire per il loro vantaggio, o tentano di resistere ad analoghe spinte; immersi in un mondo altamente simbolico finiscono persino per dimenticare che possa esistere un Assoluto e professano con orgoglio un pragmatismo talvolta cinico oltre il quale non è difficile intravedere una profonda disperazione.
Mi piacerebbe poter fare qualcosa per questi bisognosi, ma mentre è relativamente facile aiutare chi manca di un piatto di minestra, non credo proprio che sarei in grado di farmi ascoltare da loro. E anche se mi ascoltassero, che cosa potrei dire di così efficace da provocare un cambiamento esistenziale? E siamo poi sicuri che un discorso – per quanto alto e ispirato – possa provocare un cambiamento esistenziale? Forse l’unico modo efficace per aiutare i bisognosi è spegnere il conflitto dentro me stesso, e poi semplicemente stare nel mondo. Spesso si dice che la guerra è come un fuoco che si diffonde incontrollato, ma non potrebbe anche la pace essere contagiosa?

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Forse la pace di cui lei parla è costosa... costosa per un "bisognoso" inconsapevolmente o no costretto da vincoli di interesse economico, sociale, politico,e, nel piccolo, affettivo.. il bisognoso ha sacrificato il Sé e con esso l'Assoluto che in questo Sé si manifestava, negandolo... la disperazione, la ricerca, la domanda, sono forse passi necessari e auspicabili affinché questa bulimia abbia fine, eppure li percepiamo costosi. Vivere nel mondo come poveri, senza essere bisognosi. Come? Questo anelito di pace spesso è schiacciato da pietre troppo pesanti...
Leila

alessandro cordelli ha detto...

...è vero, nessuno è al sicuro; anche dopo un lungo e faticoso cammino spirituale si può sempre ricadere nel vortice del non-senso, della molteplicità inintelligibile. Ciò non deve essere fonte di scoraggiamento, ma di una salutare umiltà. Penso che la tua domanda sui modi e l'essenza della povertà meriti una riflessione profonda.

A.C.