Scelte


Per quale motivo crediamo – o non crediamo – in Dio? Per quale motivo vogliamo che gli altri credano – o non credano – in Dio? Delle due, la risposta alla seconda domanda è sicuramente più facile. Per quello che riesco a comprendere dell'animo umano, molte volte si tratta di confermare i presupposti del partito in cui militiamo rafforzandolo e ottenendo vantaggi concreti; altre volte è il prestigio che deriva dal vedere accettata e condivisa la posizione che affermiamo; oppure è il difendersi dal senso di disagio (insopportabile per i più) provocato dalla negazione di un principio sul quale sono fondate le scelte e la vita; sono in molti poi a dire che vorrebbero vivere in un mondo in cui tutti credono – o non credono – in Dio perché quello sarebbe un mondo migliore. Ma fuori dal clamore, dalle invettive, dalle dispute dialettiche, dalle dissertazioni filosofiche, ogni coscienza si pone le domande più estreme e assolute che riesce a concepire semplicemente perché non può evitarlo. Se infatti durante una marcia, dopo aver già tanto camminato, ci troviamo su una strada dritta che si estende sotto il Sole a perdita d'occhio, è probabile che le gambe ci dicano di non voler proseguire, che il viaggio finisce lì. Ma se invece è la mente a trovarsi in uno spazio aperto dai confini lontanissimi, sarà arduo impedirle di volare fino all'orizzonte estremo. Così, se ad esempio comincio a riflettere sul tempo considerando solo una parte di passato o di futuro, difficilmente riuscirò a mantenere il pensiero rinchiuso entro quel confine; piuttosto, compatibilmente con quelle che sono le mie capacità di ragionamento e di astrazione e i miei presupposti culturali, si affacceranno domande sull'inizio, sulla fine, sulla natura del tempo stesso. Ora, il tempo è solo un aspetto dell'esperienza umana; ma la totalità di quello che vediamo, sentiamo, di quello che accade, ci provoca una domanda che è la più fondamentale di tutte: quella sull'origine. In effetti, tra tutte le cose che esistono ve ne sono diverse di misteriose (il tempo, la vita, la coscienza...), ma la più misteriosa di tutte è l'esistenza stessa delle cose, il fatto che vi sia l'universo e al suo interno noi a porci domande su di esso. Qual è dunque l'ultima ragione della semplice e pura esistenza delle cose, di tutte le cose?


Spazi di libertà


Le azioni non nascono senza motivo. Ogni azione è una risposta a uno stimolo che viene dall'ambiente. Può essere una risposta immediata a uno stimolo urgente, può essere la reazione a fatti e parole ormai lontani nel tempo. Ciò che ci spinge ad agire in un particolar modo a volte è un evento ben identificabile, altre volte una situazione in cui molteplici fatti che riguardano la nostra persona si vengono a sovrapporre, provocando in noi emozioni e sentimenti imprevedibili. Sia come sia, questo è da sempre il modo di essere dell'intero universo: ogni sistema cambia le proprie caratteristiche in base a qualche variazione nell'ambiente in cui è immerso, e così facendo modifica quello stesso ambiente provocando cambiamenti nei sistemi circostanti, secondo una rete causale illimitata. Il punto è che quando il sistema in questione è in grado di valutare le situazioni, allora non abbiamo più una semplice reazione, ma una decisione. E quando al sistema è possibile assegnare quella cosa misteriosa chiamata coscienza, allora la decisione è una scelta.
Gli animali superiori, dotati di un sistema nervoso sviluppato, sono in grado di formarsi immagini mentali del futuro possibile che potrebbe discendere da una certa azione e in tal modo decidere quale risposta mettere in atto secondo la massima utilità, stimata sulla base del loro personale sistema di valori. Sembrerebbe quindi che la libertà sia un'illusione, nascosta nelle pieghe di una mente tanto complessa da perdere il filo delle sue motivazioni. In effetti ognuno di noi è dotato di un "arsenale interpretativo" necessario per formulare i giudizi sulle cose che accadono e prendere decisioni in merito. Siamo reattivi e lo siamo stati nei milioni di anni della nostra storia biologica, perché così le possibilità di sopravvivere aumentano: di fronte alle minacce immediate fermarsi a riflettere significa perdere tempo prezioso. Eppure, per una strana contraddizione, più l'uomo si spinge avanti nella sua evoluzione culturale e più questa caratteristica appare obsoleta e inefficace: in una società complessa la decisione impulsiva è il più delle volte perdente.
A dire il vero, a me non interessa stabilire qual è la modalità di decisione più efficace, quanto piuttosto considerare se esiste una effettiva libertà nelle decisioni dell'uomo, oppure se qualsiasi scelta è rigidamente determinata. I fattori in base a cui formuliamo i giudizi sono in primo luogo paure e desideri istintivi, poi i condizionamenti e i pregiudizi su noi stessi e sul mondo inconsapevolmente stratificati nella nostra psiche dai primi anni di vita, infine i valori assorbiti dalla cultura in cui siamo immersi.
Una reazione diretta non è mai libera, anche se nasce da alti principi morali che l'individuo condivide con tutta la società. Magari è la risposta migliore, ma ciò non toglie che non sia libera. L'essere umano ha però a sua disposizione una risorsa unica, la coscienza. È la capacità di auto-trascendersi, di osservare i propri processi mentali da un punto di vista esterno. I valori giudicano le situazioni dirigendo le scelte, ma nella consapevolezza anche le situazioni giudicano i valori, mettendoli eventualmente in discussione e rimodulandoli. È stato detto che "tra lo stimolo e la risposta c'è uno spazio, e in quello spazio si trova la nostra libertà e il nostro potere" (S.R. Covey). Espressioni come "lotta per la libertà" evocano battaglie cruente tra comunità oppresse e feroci aguzzini; in realtà io ritengo che in quelle situazioni - che pure sono drammatiche e dolorose - la libertà personale sia molto poco a rischio: potranno anche chiudermi in una cella per tutta la vita, ma nessuno mi farà mai abbracciare una convinzione che io non voglio. Il vero combattimento per la libertà è quello che ingaggiamo contro quella parte di noi stessi che reagisce sempre negli stessi modi, prigioniera di schemi travestiti da ideali, guidata lungo sentieri di infelicità da un incontrastabile senso di necessità.

Scienziati e credenti: Dio e la nuova fisica


Sono in molti oggi quelli che, facendo riferimento ai modelli cosmologici derivati dalla teoria dell’inflazione, sostengono che il niente è dinamicamente instabile, per cui l’apparire dell’universo è una conseguenza necessaria delle leggi della meccanica quantistica. Non vi è quindi alcun bisogno di ipotizzare un principio creatore trascendente per giustificare l’esistenza della realtà.

Tali argomentazioni si basano sul principio di indeterminazione di Heisemberg, il quale  afferma che l'incertezza con cui si può stabilire l'energia di uno stato atomico è inversamente proporzionale al tempo di vita dello stato stesso. Tra le implicazioni più interessanti di tale principio vi è il fatto che una delle leggi fondamentali della fisica, la conservazione dell’energia, può anche essere violata purché tale violazione duri un tempo sufficientemente breve. Può così accadere che coppie di particelle appaiano letteralmente dal nulla per poi essere nuovamente inghiottite nel nulla poco dopo. Ma è possibile estendere questo meccanismo, che vale per le singole particelle elementari e in un tempo brevissimo, all’intero universo per un tempo virtualmente illimitato?
Per rispondere a questa domanda consideriamo due ipotetici universi all’inizio della loro vita: il primo è abbastanza grande affinché il processo di espansione, una volta iniziato, possa proseguire indefinitamente; il secondo invece non ha abbastanza energia per sostenere l’espansione e collassa quasi subito. Il principio di indeterminazione però garantisce anche a un universo del secondo tipo la possibilità di una violazione della conservazione dell’energia di entità tale da trovarsi in uno stato in cui l’espansione possa sostenersi. È lecito a questo punto domandarsi quanto può essere piccolo l’universo iniziale ed avere ancora una probabilità non trascurabile di saltare in uno stato in cui l’espansione è possibile. Bene, calcoli accurati (Alexander Vilenkin) rivelano un risultato sconcertante: anche mandando a zero le dimensioni iniziali dell’universo, la probabilità di violare la conservazione dell’energia quel tanto che basta per avere un’espansione sostenibile rimane finita. In altri termini, le equazioni prevedono che un intero universo possa sorgere letteralmente dal niente. Questa peculiare caratteristica prende il nome di nucleazione.

Gli argomenti a favore dell’autosufficienza ontologica della realtà materiale basati sui modelli cosmologici sono sicuramente accattivanti, ma soffrono di un fondamentale vizio epistemologico: essi estendono il raggio di azione della spiegazione scientifica al di là dei limiti che le sono propri (in maniera opposta ma logicamente equivalente a quanto fanno coloro che pretendono di utilizzare parti della bibbia per confutare teorie scientifiche come quella dell’evoluzione). Può non essere facile riconoscere l’intrinseca debolezza di questi argomenti poiché essi si situano in una zona d’ombra appena al di là dei confini della scienza. La fisica infatti, da Galileo in poi, è fatta di modelli che trovano la loro conferma nell’esperimento; per ogni tentativo di falsificazione non riuscito aumenta l’affidabilità del modello stesso. Nella cosmologia queste conferme sono sempre più indirette e meno stringenti quanto più ci si spinge lontano nello spazio e indietro nel tempo, fino ad arrivare a un livello in cui l’unica cosa che rimane è la coerenza logica (condizione necessaria ma non sufficiente per accettare una teoria). A tutti gli effetti ci si trova di fronte non più a una teoria scientifica ma a una opinione espressa in termini matematici. La nascita di un universo dal niente per fluttuazione quantistica è qualcosa che per sua stessa definizione non sarà mai osservabile; non appare più vincolante dell’ipotesi dell’atto volontario di un Dio creatore. Si potrebbe obiettare che l’argomento “scientifico” ha una maggiore plausibilità, ma la plausibilità riguarda più l’attitudine psicologica (ciò che meglio si adatta al mio sistema di valori, credenze, significati) che la necessità logica (ciò che segue deduttivamente da ipotesi ben verificate mediante l’esperimento). Il punto è che le leggi fisiche fanno riferimento a una realtà materiale che è comunque già stabilita, anche se “vuota” di materia. Il problema della creazione riguarda invece il passaggio dal non-essere all’essere, che si situa a un livello ontologico superiore. In questo senso, all’ateismo scientifico contemporaneo si può ben muovere la stessa obiezione che Kant nella Critica della Ragion Pura oppone alle prove cosmologiche dell’esistenza di Dio: non è lecito estendere un concetto (la causalità per Kant, la legge fisica nel nostro caso) oltre gli ambiti che gli sono propri.

Vi è poi un altro aspetto di debolezza nelle argomentazioni atee. L’intelligibilità razionale dell’universo è un prerequisito essenziale della spiegazione scientifica. Ma nella visione materialista la mente coincide con il cervello, cioè un sistema fisico. Abbiamo quindi una pericolosa situazione di circolarità logica in cui ciò che comprende (il prerequisito) è a sua volta parte di ciò che viene compreso. Con questo non si vuole affermare l’esistenza di una non ben definita sostanza spirituale di cui sarebbero composte le anime, ma solo che vi sono elementi di autentica realtà che eccedono le possibilità di spiegazione dei modelli scientifici. Che la scienza abbia dei limiti è un punto su cui tutti concordano, le divergenze nascono quando si prova a gettare lo sguardo oltre questi limiti. Per l’ateismo scientifico ciò che non è riconducibile alle leggi della fisica semplicemente non esiste, è frutto di illusione ed errore; nelle visioni alternative al materialismo vi è invece un’eccedenza della realtà rispetto alle possibilità della spiegazione scientifica.

Quale conclusione possiamo dunque trarre da queste riflessioni? Che vi è una completa simmetria riguardo all’utilizzo improprio degli argomenti scientifici in teologia: come il Big Bang non può essere considerato una conferma di quanto narrato nel libro della Genesi, così il modello della nucleazione di Vilenkin non è una prova del fatto che Dio non esiste. Ma allora, che cosa rimane alla fine? Una realtà che la scienza è in grado di spiegare in tutti i suoi aspetti parziali e contingenti, ma la cui esistenza rimane il più grande dei misteri. È lecito decidere di continuare a navigare sempre in questo lago (dopotutto, i mille problemi della quotidianità bastano e avanzano per riempire più di una vita), ma chi vuole spingere lo sguardo e le vele al di là delle Colonne d’Ercole sappia che deve essere pronto a qualsiasi cosa.





Nozioni e concetti


I due poli attorno a cui ruota l'attività didattica sono le nozioni e i concetti. Le prime fanno riferimento al “sapere”, i secondi al “conoscere”. La nozione riguarda sia i dati e le informazioni, ma anche alcuni procedimenti. Essa è necessaria nella misura in cui rende possibile la conoscenza, ma in sé ha poco senso. Un certo bagaglio di nozioni di base è indispensabile, altrimenti sarebbe impossibile procedere con operazioni più complesse. Bisogna però anche tenere conto del presente contesto antropologico nel quale si è di fatto realizzata una sorta di memoria collettiva con tempi di accesso molto più rapidi rispetto a situazioni precedenti nella storia dell'uomo. La memoria collettiva è infatti sempre esistita ed è una delle strategie vincenti dell'evoluzione umana. Rispetto ad oggi nel passato essa conteneva un numero più ristretto di nozioni, ma soprattutto era superiore la difficoltà di accesso. Risultava quindi vantaggioso mandare a memoria un numero maggiore di informazioni rispetto a quanto non sia opportuno in un contesto in cui all'informazione si può accedere in tempo reale attraverso la rete, oppure un'enorme quantità di dati sono contenuti in supporti piccoli e leggeri. In questo senso possiamo dire che la rivoluzione informatica ha liberato preziose energie che la mente umana può spostare dall'accumulo di informazioni alla elaborazione dei concetti. Fermo restando il bagaglio minimo di nozioni fondamentali, diventa importante che il soggetto sia in grado di reperire l'informazione che gli occorre, in ogni momento e nel più breve tempo possibile. 

Non così per i concetti. Un concetto, un atto o processo di conoscenza non potranno mai essere salvati su un supporto digitale. Il motivo è molto semplice: la conoscenza implica i significati, la nozione unicamente l'informazione (o al massimo la sintassi). Chiunque può fare un semplice esperimento per verificare la bontà di queste mie affermazioni: si prenda un testo di matematica e si vada al capitolo su un argomento di cui non si sa nulla. Magari prima si chiariscano le definizioni di tutti i termini usati, ma anche così ci renderà conto che si stanno leggendo cose che hanno ben poco significato, parole in fila secondo periodi grammaticalmente corretti ma che mantengono un senso oscuro. Se però quel capitolo lo leggiamo e rileggiamo varie volte, e ci si sofferma sui singoli passi che sembrano più oscuri, e si fanno esempi, disegni esplicativi e quant'altro, ecco che ad un certo punto quelle stesse parole è come se si illuminassero, e tutto diventa chiaro. Si dice che abbiamo capito l'argomento. Se invece ci limitassimo a mandare a memoria le formule e le definizioni in esso contenute potremmo al più dire che l'abbiamo imparato.

La scuola come luogo di potere


La scuola è un luogo privilegiato per osservare le dinamiche di potere nelle relazioni umane. Non nel senso che la scuola sia crocevia dei grandi poteri che nella nostra società hanno ormai ben poco a che fare con la cultura; piuttosto come rappresentazione di una caratteristica universale, quella dei giochi di potere. Nella sua accezione negativa il potere è far fare ad un'altra persona quello che lui o lei non vorrebbe fare, cioè manipolare gli altri. Lo strumento di tali dinamiche sono i giochi di potere. Vi sono molti tipi di giochi di potere. Alcuni sono giocati da una posizione dominante nei confronti di un subordinato. È la coercizione. Quando l'insegnante usa il voto o il rapporto disciplinare per ottenere dalla classe un timoroso apparente rispetto che ha diversi vantaggi: non essere messi in discussione, non dover ricalibrare e aggiustare le linee di lavoro decise una volta per tutte, il senso di sicurezza insito nell'essere temuti e nel vedere gli altri dipendenti da noi.
Ma vi sono giochi forse anche più duri giocati da posizione subordinata, giochi "di guerriglia", i giochi mediante cui gli studenti esercitano il loro potere nei confronti degli insegnanti. Nella guerriglia un combattente più debole interferisce in maniera sistematica con gli obiettivi della parte avversa, riuscendo molte volte a neutralizzarli. Ciò accade quando la classe è indisciplinata, l'insegnante viene contestato, le iniziative vengono boicottate, il lavoro viene svolto male e si copia nelle verifiche. Alla fine l'insegnante avrà pure tirato diritto per la sua strada, ma si sentirà frustrato e deluso.
Io credo che i tempi siano maturi per espellere dalle aule scolastiche le dinamiche basate sul potere. In qualsiasi relazione sociale se un individuo ha dei desideri, aspettative, esigenze che altri possono soddisfare, è bene che impari a chiedere piuttosto che cercare di manipolare l'altro. Io rifiuto di subire i giochi di potere dei miei studenti, ma per ottenere ciò sono ben consapevole del fatto che io per primo devo rinunciare ad esercitare il mio potere nei loro confronti, esponendo le mie esigenze ed ascoltando le loro per provare a costruire insieme un'esperienza che sia per tutti quanti della massima soddisfazione, sia dal punto di vista della conoscenza acquistata che dei rapporti tra persone. Per dirla con le parole di Claude Steiner: "L'uso dei giochi di potere in una relazione rappresenta una situazione in cui due persone che desiderano qualcosa l'una dall'altra sono disposte a sostituire ciò che desiderano con la sensazione di essere dominanti, almeno temporaneamente. I giochi di potere non conducono alla soddisfazione né all'uguaglianza, ma portano sempre a perduranti o crescenti situazioni di superiorità/inferiorità. Quando si vince per mezzo del potere, l'appagamento sta nel senso di sicurezza che dà l'avere il controllo della situazione. Ma il controllo o il potere non sono di per sé soddisfacenti: nessuna quantità di potere o di controllo potrà soddisfare pienamente le esigenze di un essere umano. La soddisfazione deriva dall'avere a sufficienza ciò di cui si necessita veramente - cibo, abitazione, spazio, carezze, amore e tranquillità. Il modo per arrivarci non sono i giochi di potere ma la collaborazione".

Scuola di obiettivi o scuola di senso?


Nella nostra società, pragmatica e per certi versi superficiale, senso e scopo tendono a identificarsi. Avere scopi, obiettivi, piani è la stessa cosa che trovare un senso nelle attività, e più in generale nella vita. La sosta, il silenzio, il puro esserci vengono dai più equiparati alla noia e temuti, quasi fossero una sorta di figura della morte. In realtà senso e scopo non coincidono affatto. La vita di un mistico non ha molti scopi, ma la profondità della sua contemplazione può arrivare fino a intuire la recondita armonia che è il senso dell'intero universo; nella sua autobiografia Romano Guardini scrive: "Parecchie volte, specie negli ultimi anni, ebbi la sensazione che la verità mi stesse dinanzi come un essere concreto". Di contro, io stesso ricordo che, nel periodo in cui lavoravo come sviluppatore di software, nonostante avessi una moltitudine obiettivi da realizzare, bruciavo di una continua insoddisfazione per non capire né intuire la radice della mia stessa vita.
La scuola è funzionale alla società e alla cultura dominante, per questo è fondamentalmente come una scuola di obiettivi. Agli studenti viene richiesto soprattutto di sviluppare determinate abilità (di calcolo, di traduzione, ecc.) e di assimilare una congrua dose di nozioni. Ben poco viene fatto per inquadrare questo bagaglio di conoscenze/competenze in un opportuno contesto di senso. Anche perché il fulcro intorno a cui ruota l'intera attività scolastica è la dinamica premio-punizione su cui si fonda il sistema valutativo. I giudizi sono formulati sulla base del raggiungimento di obiettivi non concordati, con una oggettività che riduce la complessità della persona (cioè il senso) alla somma delle parti, e in tal modo irrimediabilmente la perde. Lo studente è sempre passivo in tale processo, sia che questo si risolva negativamente con la sua esclusione che positivamente con la sua inclusione. Nella scuola degli obiettivi non è infrequente che creatività e autonomia siano fonte di problemi per chi le manifesta, mentre esuberanza e affermazione di sé lo sono sempre.
Eppure molti studenti si percepiscono nei confronti delle materie studiate come più centrati sul senso che sugli obiettivi. Di fatto, non manca nei giovani l'anelito verso una crescita autentica che vada ben oltre l'acquisizione di nozioni e abilità circoscritte: è sorprendente quello che hanno da dire, se solo uno si prende la briga di ascoltarli.
Gli obiettivi possono anche essere imposti dal di fuori, ma la ricerca del senso è un percorso che parte dall'individuo. Un percorso in cui l'individuo ha domande da porre, le cui risposte dovrebbero venire dalla scuola, se è in grado di darle. Ma dall'altro lato della cattedra difficilmente arrivano risposte, piuttosto altre domande, il più delle volte lontane anni luce da ciò che in quel momento è sentito come urgente e reale (è stato detto che la scuola è l'unico luogo in cui chi sa fa domande a chi non sa). Nella maggior parte dei luoghi della socializzazione (siano essi negozi, uffici, ambulatori o altro) le persone si recano con dei problemi che gli operatori cercano di risolvere; nella scuola sono coloro che hanno mansioni e responsabilità a creare problemi agli utenti, una non invidiabile caratteristica che il sistema scolastico condivide con quello giudiziario e con l'amministrazione militare.
Questo stato di cose - la scuola degli obiettivi, intendo dire - non è sentito da tutti come problema; anzi, per gran parte delle persone è giusto che sia così. Sono infatti in molti a pensare che questo sia, se non l'unico, quantomeno il migliore dei mondi possibili: studenti già condizionati e rassegnati, famiglie spaventate da una reale crescita in autonomia dei loro ragazzi, insegnanti che preferiscono difendersi dietro modalità didattiche stanche e inefficaci che li inaridiscono dal di dentro. Per questo motivo è utopistico pensare che possa esservi una qualche riforma in grado di rovesciare le prospettive. In questo come in tenti altri ambiti il cambiamento può solo arrivare dal basso, dai singoli. In maniera informale e silenziosa, se e quando si affermerà una nuova concezione dei rapporti sociali basata meno sull'utilità e più sulla persona, allora sarà automatico anche un diverso atteggiamento degli insegnanti nei confronti dei loro alunni, per il quale non sono necessarie particolari doti psicologiche o competenze specifiche, ma solo l'adozione di un differente punto di vista.

Delle cose militari


Quando, studiando la storia del passato o leggendo i fatti del presente, ci si trova di fronte alla guerra vi è una tendenza inconsapevole a formulare giudizi articolati; ad esempio decidere chi sono i buoni e chi i cattivi, ragionare sulle cause che hanno portato al conflitto, ipotizzare conseguenze positive in seguito all'affermazione di un nuovo ordine. Talvolta è capitato e capita anche a me, ma se mi metto a riflettere cercando la radice più profonda di tutto ciò, mi accorgo che questo è sbagliato. Non vi è infatti nessuna considerazione che si addice alla guerra, eccetto il suo rifiuto semplice e radicale. Qualsiasi guerra (guerra di secessione, guerra di successione, guerra di conquista, guerra partigiana, guerra di liberazione, guerra santa, guerra portatrice di democrazia...) la si ottiene dal genere "guerra" aggiungendo un'opportuna differenza specifica. Ma una specie eredita dal genere tutti i suoi caratteri e poi ne aggiunge di nuovi che però non possono essere in contraddizione con quelli precedenti; come può dunque essere inaccettabile la guerra (cosa che a parole tutti proclamano) e poi addirittura santa la guerra fatta in nome della religione?
Non ci sono molte analisi da fare sui vari eventi bellici; una sola parola è opportuna: rifiuto. Di solito, arrivati a questo punto della discussione le "persone di buon senso" sfoderano un argomento apparentemente formidabile: va bene, ma cosa avresti fatto con Hitler o con Bin Laden? Avresti lasciato che tutto il mondo cadesse sotto il giogo nazista o che alle donne italiane venisse imposto il burka e che la basilica di San Pietro fosse trasformata in una moschea? L'argomento è sottilmente fallace, dato che considera una dinamica sociopolitica solo nella sua fase finale anziché nella sua interezza. Non si parla infatti delle condizioni oggettive che portarono la Germania del primo dopoguerra a precipitare nell'incubo nazista, né delle ingiustizie perpetrate in molte parti del nordafrica e medio oriente che hanno regalato validi argomenti all'integralismo islamico. La contraddizione si è mostrata in tutta la sua evidenza nell'ultima crisi internazionale, laddove un capo di governo occidentale (ahimé, il nostro!) baciava l'anello a Gheddafi e dopo poche settimane mandava aerei da guerra a bombardare la Libia.
Il fatto è che l'ingiustizia, la corruzione e lo sfruttamento generano risentimento e instabilità e creano le condizioni ottimali per l'esplodere della violenza organizzata. Quando poi si è passato il punto di non ritorno ecco che le "persone di buon senso" ci spiegano come di fronte a mali ben più gravi o per proteggere civili inermi non c'è altra strada che un "intervento umanitario" (grottesco ossimoro, come se nel tirare bombe a casaccio sui quartieri delle città possa esservi qualcosa di umanitario).
Insomma, la guerra non deve neanche essere presa in considerazione, è un confine da non valicare per nessun motivo, poiché la guerra è morte incomprensibile. La morte infatti non è necessariamente qualcosa di male: senza la morte noi saremmo ancora - dopo tre miliardi e mezzo di anni - un esercito di protobionti che sguazzano nel brodo primordiale; con la morte chi ha già giocato la sua partita lascia libero il campo ai nuovi, liberando risorse e lasciando in eredità un prezioso capitale di conoscenze e di saggezza. La morte però, per essere accettata e comprensibile, deve seguire le sue regole, che sono essenzialmente due. In primo luogo un genitore non dovrebbe mai seppellire il proprio figlio; la seconda regola è che un uomo (o una donna) non dovrebbe mai morire quando i suoi figli hanno ancora bisogno di lui (o di lei). Bene, nella guerra queste regole vengono violate entrambe; nei campi di battaglia giovani vite vengono troncate lasciando anziani genitori preda di un dolore così straziante che non può essere neppure concepito e bambini disorientati che non avranno la più importante guida nel cammino verso l'età adulta. Nella guerra tutto è assurdità e follia, l'orrore è talmente grande da sovrastare le buone ragioni - se ve ne sono - come il fiume di fango di una frana travolge un piccolo fiore. Mi spiace quindi per la patria che chiama, per il proletariato oppresso che reclama la sua libertà, per la democrazia che deve essere portata a popoli arretrati che vivono ancora secondo codici medioevali, per la giusta causa della lotta al terrorismo... ma tutto questo mi puzza di tragico inganno, perché un soldato morto - da qualsiasi parte abbia combattuto - ha comunque perso. Perciò di fronte alla guerra, qualsiasi guerra, ho solo una parola: no.